La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 24145 del 30 ottobre 2020, ha affermato che, in caso di cessione di azienda, il lavoratore ha diritto alla conservazione dell’elemento distinto della retribuzione previsto dal contratto individuale di lavoro.
I fatti di causa
La Corte di Appello di Catanzaro aveva accolto il ricorso proposto da un lavoratore, con qualifica di anestesista, transitato alle dipendenze di un’altra società per effetto di una cessione d’azienda.
Il lavoratore, in particolare, aveva rivendicato il proprio diritto alla conservazione dell’elemento distinto della retribuzione (denominato “EDAPR”) attribuitogli dalla cedente e goduto per oltre un decennio (dal 4 gennaio 2001 al 27 maggio 2011), chiedendo, per l’effetto, la condanna della cessionaria al pagamento delle somme dovute a tale titolo nel periodo dal 27 maggio 2011 al 31 gennaio 2015.
Sul punto, la Corte distrettuale aveva ritenuto che (i) al lavoratore fosse stato riconosciuto l’importo a titolo di “EDAPR” come compenso forfettario per prestazioni di lavoro straordinario eventualmente svolte (c.d. straordinario forfettizzato”) e (ii) lo stesso si fosse trasformato, nel corso del rapporto di lavoro, in un superminimo costituente parte integrante della retribuzione del lavoratore.
La Corte territoriale aveva dunque riconosciuto il diritto alla conservazione dell’elemento distinto della retribuzione e dell’anzianità di servizio maturata dal lavoratore come una corretta applicazione dell’art. 2112 cod. civ., allorquando dispone che il dipendente della cedente conserva tutti i diritti che derivano dall’originario rapporto, escludendo, al contempo, l’impossibilità di richiamare il comma 4 del medesimo articolo a fondamento di modifiche unilaterali del rapporto da parte della società cessionaria.
Avverso la decisione emessa dai giudici di merito la società soccombente ricorreva alla Corte di Cassazione.
La decisione della Corte di Cassazione
La Corte di Cassazione, nel rigettare il ricorso della società, ha ribadito le peculiarità contenute nell’art. 2112 cod. civ. affermando testualmente che esso “assicura a favore dei dipendenti dell’imprenditore che trasferisce l’azienda o un suo ramo la garanzia della conservazione di tutti i diritti derivanti dal rapporto lavorativo con l’impresa cedente e mira alla tutela dei crediti già maturati dal lavoratore ed al rispetto dei trattamenti in vigore”.
La Suprema Corte ha, inoltre, evidenziato come nel caso di specie il compenso sia stato correttamente identificato come un elemento della retribuzione funzionale alla prestazione nel suo complesso e che “il compenso forfettario della prestazione resa oltre l’orario normale di lavoro accordato al lavoratore per lungo tempo, ove non sia correlato all’entità presumibile della prestazione straordinaria resa, costituisce attribuzione patrimoniale che, con il tempo, assume funzione diversa da quella originaria, tipica del compenso dello straordinario, e diviene un superminimo che fa parte della retribuzione ordinaria e non è riducibile unilateralmente dal datore di lavoro”.
A parere della Corte, il datore di lavoro può optare per il riconoscimento di un compenso a forfait – omnicomprensivo e non vincolato al numero di ore effettivamente lavorate oltre l’orario normale – volto a ristorare il lavoratore delle prestazioni di carattere straordinario. Il relativo quantum non è conseguenza di una rilevazione a consuntivo delle ore straordinarie prestate moltiplicate per le relative maggiorazioni. La sua misura è determinata a priori in funzione di un accordo tra le parti per compensare un monte ore di lavoro straordinario che si “presume” venga reso attraverso un’erogazione costante nel tempo.
Tale emolumento, divenendo dunque un elemento della retribuzione ordinaria del lavoratore, non è passibile di revoca unilaterale da parte del datore di lavoro.
Con queste motivazioni, la Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso presentato dal datore di lavoro, condannandolo al pagamento delle spese di giudizio.