La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 15118/2021, si è espressa in merito alla eventuale applicazione della normativa in materia di licenziamento collettivo all’ipotesi di avvio da parte del datore di lavoro di molteplici procedure ex art. 7 della Legge n. 604/1966.
I fatti di causa
Nel caso di specie una lavoratrice aveva impugnato il licenziamento per motivi economici intimatole, oltre che per l’asserita insussistenza della motivazione, per omessa procedura di licenziamento collettivo prevista dall’art. 24 della Legge n. 223/1991. Ciò in quanto la società datrice di lavoro aveva avviato di diverse procedure di cui all’art. 7 della Legge n. 604/1966 nei 120 giorni successivi al licenziamento, dovute – a dire della lavoratrice– alle medesime motivazioni di quest’ultimo.
Costituendosi in giudizio, la società datrice di lavoro aveva confermato la sussistenza della motivazione addotta a fondamento del licenziamento ma – al contempo – aveva negato di aver intimato ulteriori licenziamenti per motivazioni economiche. Le numerose procedure avviate ex “articolo 7” – complessivamente pari a nove – erano in realtà tutte confluite in accordi di risoluzione consensuale. A dire della società, in sostanza, “non vi erano stati comunque cinque licenziamenti nell’arco di 120 giorni”.
“Licenziamento” ed “intenzione di licenziare”
Ancorché rigettate in primo grado, le domande della lavoratrice avevano trovato accoglimento in appello: la corte territoriale, infatti, aveva ritenuto fondata la censura sulla omessa procedura di licenziamento collettivo, colpevolmente non attuata da parte della società.
Avverso la sentenza dei giudici di merito, la società proponeva ricorso in Cassazione, ribadendo che nel lasso temporale dei 120 giorni previsti dalla Legge n. 223/1991 non era stato intimato nessun ulteriore licenziamento per motivazioni economiche. A dire della stessa, in tale arco temporale “sarebbero avvenuti (…) solo delle dichiarazioni dell’intenzione di licenziare di cui all’art. 7 della Legge n. 604/1966”. Tali dichiarazioni non sarebbero risultate equiparabili ai “licenziamenti” a cui la Legge n. 223/1991 si riferisce espressamente e, secondo quanto argomentato da parte del datore di lavoro, la corte territoriale aveva di fatto erroneamente equiparato “l’intenzione di recedere ex art. 7 ad un vero e proprio licenziamento”.
La decisione della Corte di Cassazione
La Corte di Cassazione, nell’accogliere il ricorso della società datrice di lavoro, ha sottolineato come l’espressione “intenda licenziare” di cui all’art. 24 della Legge n. 223/1991 costituisce una chiara manifestazione della volontà di recedere dal rapporto di lavoro, pur subordinata all’esperimento della procedura del licenziamento collettivo istituita dal legislatore.
Al contrario, l’espressione “deve dichiarare l’intenzione di procedere al licenziamento per motivo oggettivo” contenuta dall’art. 7 della Legge n. 604/1966 è “imposta al fine di intraprendere la nuova procedura di compensazione (o conciliazione) dinanzi alla DTL, e non può quindi ritenersi di per sé un licenziamento”.
Alla luce di tali considerazioni, la Corte di Cassazione ha confermato la legittimità del licenziamento intimato alla lavoratrice, in quanto la società datrice di lavoro non era tenuta all’avvio procedura collettiva. L’avvio di più procedure ex “articolo 7” non è rilevante, di per sé, ai fini del calcolo del numero minimo di cinque recessi che impone ai datori di lavoro l’avvio dell’iter tipico del licenziamento collettivo. Ciò, anche se i recessi avvengono per le medesime motivazioni economiche e nell’arco dei 120 giorni, come determinato dalla Legge n. 223/1991.