Decreto fiscale: le novità in materia di salute e sicurezza nei luoghi di lavoro

Il Decreto-Legge n. 146/2021 (c.d. “Decreto fiscale”) ha introdotto una serie di novità in materia di salute e sicurezza nei luoghi di lavoro. In particolare, il legislatore ha previsto una “stretta” per quanto riguarda il lavoro irregolare (c.d. lavoro “nero”), un’estensione delle competenze dell’Ispettorato Nazionale del Lavoro (“INL”) ed un inasprimento generalizzato delle sanzioni per i datori di lavoro non ottemperanti.

Sospensione dell’attività dell’impresa

Il Decreto fiscale ha attribuito all’Ispettorato Nazionale del Lavoro (l’”INL”) la competenza a comminare il provvedimento di sospensione dell’attività dell’impresa qualora, al momento dell’accesso ispettivo, almeno il 10% dei lavoratori presenti sul luogo di lavoro risulti occupato “senza preventiva comunicazione di instaurazione del rapporto di lavoro, ovverosia in nero. La precedente percentuale, determinata dall’art. 14 del D.Lgs. 81/2008 (c.d. “Testo unico sicurezza sul lavoro”), era pari al 20%.

Rimane, invece, confermato il divieto di adottare il provvedimento qualora il lavoratore trovato risulti essere l’unico occupato presso il datore di lavoro. In questo caso, gli ispettori procederanno con l’allontanamento del lavoratore irregolare fino al momento dell’avvenuta regolarizzazione (Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociale, circolare n. 33/2009).

La sospensione dell’attività aziendale da parte dell’INL è prevista, altresì,in caso di gravi violazioni in materia di tutela della salute e della sicurezza sul lavoro, anche se non in presenza di una reiterazione degli illeciti. In particolare, tali violazioni saranno individuate da un decreto ministeriale di prossima emanazione; nelle more del decreto, le violazioni sono quelle indicate nel nuovo Allegato I del Testo unico sulla sicurezza, ovverosia:

  • mancata elaborazione del Documento di valutazione dei rischi (“DVR”);
  • mancata elaborazione del Piano di emergenza ed evacuazione;
  • mancata formazione ed addestramento;
  • mancata costituzione del servizio di prevenzione e protezione e nomina del relativo responsabile;
  • mancata elaborazione del Piano operativo di sicurezza (“POS”);
  • omessa vigilanza in ordine alla rimozione o modifica dei dispositivi di sicurezza o di segnalazione o di controllo;
  • mancata fornitura del dispositivo di protezione individuale contro le cadute dall’alto e mancanza di protezioni verso il vuoto;
  • mancata applicazione delle armature di sostegno, tranne le prescrizioni che si possono desumere dalla relazione tecnica di consistenza del terreno.

Tra le violazioni, elencate nell’Allegato I, che comportano la sospensione vengono altresì inclusi:

  • i lavori in prossimità di linee elettriche in assenza di disposizioni organizzative e procedurali idonee a proteggere i lavoratori dai conseguenti rischi;
  • la presenza di conduttori nudi in tensione in assenza di disposizioni organizzative e procedurali idonee a proteggere i lavoratori dai conseguenti rischi;
  • la mancanza di protezione contro i contatti diretti ed indiretti (impianto di terra, interruttore magnetotermico, interruttore differenziale);
  • l’omessa vigilanza in ordine alla rimozione o modifica dei dispositivi di sicurezza o di segnalazione o di controllo.

La sospensione per ragioni di sicurezza è disposta in relazione alla parte dell’attività aziendale interessata dalle violazioni o, alternativamente, in ragione dell’attività svolta dai lavoratori che (i) non abbiano ricevuto opportuna formazione ed addestramento e/o (ii) non siano stati provvisti di dispositivi di protezione individuale contro le cadute dall’alto.

Unitamente al provvedimento di sospensione, l’INL può disporre l’applicazione di “specifiche misure atte a fare cessare il pericolo per la sicurezza o per la salute dei lavoratori durante il lavoro”.

La revoca della sospensione

La revoca del provvedimento di sospensione – disciplinata dall’art. 14, commi 9 e 10, del Testo unico sulla sicurezza sul lavoro – può essere disposta dagli organi di vigilanza se sussistono le seguenti condizioni:

  • regolarizzazione dei lavoratori non risultanti dalle scritture o da altra documentazione obbligatoria, anche sotto il profilo degli adempimenti in materia di salute e sicurezza;
  • accertamento del ripristino delle regolari condizioni di lavoro nelle ipotesi di violazioni della disciplina in materia di tutela della salute e della sicurezza sul lavoro;
  • rimozione delle conseguenze pericolose delle gravi violazioni di sicurezza.

Oltre il ripristino delle regolari condizioni di lavoro, al fine di riprendere le attività è necessario il pagamento di una somma (i) pari a € 2.500 fino a 5 lavoratori irregolari o pari a € 5.000 se sono impiegati più di 5 lavoratori irregolari nelle ipotesi di sospensione per lavoro irregolare e (ii) variabile (Euro 3.000, Euro 2.500 oppure Euro 300 per ciascun lavoratore interessato) in caso di sospensione per violazioni in materia di salute e sicurezza, a seconda delle violazioni riscontrate.

L’importo delle somme aggiuntive è raddoppiato se, nei cinque anni precedenti, lo stesso datore di lavoro è già stato soggetto ad un provvedimento di sospensione.

La partecipazione agli appalti pubblici

Il Decreto fiscale ha, altresì, previsto che, per tutta la durata del periodo della sospensione dell’attività per cause legate al mancato rispetto delle norme di sicurezza sul lavoro, può essere vietata al datore di lavoro la contrattazione con la pubblica amministrazione: in sostanza, l’azienda che impieghi lavoratori irregolari o compia violazioni in materia di sicurezza sul lavoro può subire il blocco della partecipazione alle gare d’appalto.

Inoltre, è disposta una segnalazione ad hoc all’Autorità nazionale anticorruzione (“ANAC”) e al Ministero delle Infrastrutture. Ancora, il soggetto sospeso che non rispetta il provvedimento è punito con (a) l’arresto fino a 6 mesi nelle ipotesi di sospensione per le violazioni in materia di tutela della salute e della sicurezza sul lavoro e (b) l’arresto da 3 a 6 mesi o con l’ammenda da Euro 2.500 ad Euro 6.400 nelle ipotesi di sospensione per lavoro irregolare.

Agenzia delle Entrate: rimborsi e dematerializzazione della nota spese

Con la risposta ad interpello n. 740/2021, l’Agenzia delle Entrate ha fornito chiarimenti in merito alla dematerializzazione delle note spese prodotte dai dipendenti inviati in trasfertisti.

Nel caso di specie, l’azienda istante ha fatto presente che intende adottare una procedura di completa dematerializzazione delle note spese prodotte dai propri dipendenti trasfertisti che ne permette “la creazione, il controllo, la contabilizzazione e la conservazione in formato totalmente digitalizzato” delle note spese.

Entrando nel merito della procedura, la creazione della nota spese, unitamente alla compilazione e all’invio del report contenente i giustificativi relativi alle trasferte effettuate, è posta a carico del dipendente che può curare in autonomia l’intero processo ovvero può avvalersi di un delegato che procede per suo conto. Ciascun soggetto è dotato di apposita utenza per l’ingresso sul portale aziendale, con cui può accedere ai relativi servizi: ciascuna di queste utenze è univoca ed è associata ad una password da cambiare inderogabilmente con cadenza mensile. Successivamente l’ufficio amministrativo effettua i necessari controlli, verificando il rispetto delle regole fiscali per la deducibilità e approvando la nota spese, gli scontrini e le fatture relative alla trasferta: la procedura di contabilizzazione avviene in automatico e i documenti sono conservati elettronicamente.

Soluzione interpretativa dell’azienda istante

L’azienda istante ritiene la procedura conforme alla normativa di riferimento, consentendo la gestione elettronica delle note spese dei trasfertisti nonché la dematerializzazione e la conservazione sostitutiva delle stesse, nonché dei relativi giustificativi.

Nell’istanza, l’azienda ha osservato che la procedura garantisce la riconducibilità univoca del dipendente alle note spese attraverso un accesso sicuro e monitorabile. Inoltre, la nota spese, nascendo come documento informatico o, comunque, essendo univocamente riferibile al dipendente, non esige o presuppone la sua materializzazione su documento cartaceo, successivamente sottoscritto, né l’apposizione da parte sua di firma elettronica o digitale (che verrà però apposta, unitamente alla marca temporale, da parte del responsabile della conservazione nella fase successiva). Altresì, l’utilizzo di tale impianto limiterebbe la conservazione cartacea solo alle spese sostenute con fornitori residenti in Paesi extra-UE con i quali l’Italia non pratichi una reciproca assistenza in materia fiscale.

Risposta ad interpello

L’Agenzia delle Entrate, nel riconoscere la validità della procedura, richiama la propria consistente prassi secondo cui “qualunque documento informatico avente rilevanza fiscale – ossia qualunque documento elettronico che contiene la rappresentazione informatica di atti, fatti o dati giuridicamente rilevanti ai fini tributari […] – come le note spese che verranno poi utilizzate per la deducibilità dei relativi costi ai sensi del decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917 (TUIR), deve possedere, tra le altre, le caratteristiche della immodificabilità, integrità ed autenticità”.

Sul punto l’autorità fiscale precisa che “laddove tali accorgimenti siano effettivamente presenti […] nulla osta a che i documenti analogici siano sostituiti da quelli informatici sopra descritti e che la procedura sia interamente dematerializzata”.

Nella fattispecie descritta e in base a quanto riferito dall’istante, l’Agenzia delle Entrate definisce la procedura molto simile a quelle descritte nelle risposte n. 403 e n. 417 del 2019. Pertanto, a suo avviso, nulla osta all’adozione del processo ipotizzato dall’istante purché siano garantiti i requisiti di immodificabilità, integrità ed autenticità dei documenti dematerializzati (condizione non verificabile in sede di interpello).

Ciò, secondo l’Agenzia, “non solo quando la nota spese è generata direttamente dal trasfertista – mediante la procedura di accesso alla rete aziendale – ma anche quando la medesima è prodotta tramite un delegato, il quale agisce su procura, in nome e per conto del delegante, […] di cui resta traccia nel sistema stesso. Come già più volte ribadito, i giustificativi di spesa, anche se dematerializzati, devono comunque consentire la verifica dell’esistenza dei requisiti (quali inerenza, competenza e congruità) che consentono la deducibilità dei costi e l’imputabilità dei redditi in capo ai dipendenti cui viene rimborsata la spesa”.

Dicembre 2021: NOVITA’ E RINNOVI CCNL

  1. CCNL Commercio (ANPIT – CISAL): welfare

Nel mese di dicembre 2021 deve essere versato ai lavoratori che, risultino in forza e abbiano superato il periodo di prova, la seconda tranche dell’emolumento “welfare contrattuale”.

Tale importo è pari ad:

  • Euro 150,00 per gli impiegati e gli operai;
  • Euro 450,00 per i quadri;
  • Euro 900,00 per i dirigenti.

Il CCNL prevede che detto importo debba considerarsi distinto e non assorbibile rispetto alle prestazioni di welfare aziendale vigenti in sostituzione del premio di risultato e sarà in aggiunta agli eventuali benefici di analoga natura già presenti in azienda.

 

  1. CCNL Grafici editoriali (Industria): gratifica natalizia

Dal 2021 matura progressivamente per mese/frazione di mese l’importo denominato ERC (Elemento di Raccordo Contrattuale) che, congelato in cifra fissa, non rivalutabile e non assorbibile, verrà corrisposto ai lavoratori nel mese di dicembre con la gratifica natalizia rispettivamente di 173 ore o di 26/26simi a seconda che siano inquadrati come operai o impiegati.

 

  1. CCNL Istituzioni socio-assistenziali (AGIDAE): assistenza sanitaria integrativa

Viene confermato il contributo di Euro 5,00 per l’assistenza sanitaria integrativa a carico del datore di lavoro, e viene introdotto un contributo di Euro 2,00, a carico dei lavoratori, con prelievo di Euro 1,00 in corrispondenza di ognuna delle due tranches di aumento, rispettivamente in programma per i mesi di dicembre 2021 e dicembre 2022.

 

  1. CCNL Lavanderie e tintorie: elemento di garanzia retributiva

L’elemento di perequazione da erogare con la retribuzione del mese di dicembre è quantificato, per l’anno 2021, in Euro 200,00. Tale elemento sarà elevato ad Euro 230,00 nell’anno 2022 e ad Euro 260,00 a decorrere dall’anno 2023.

 

  1. CCNL Metalmeccanici (Industria): retribuzione

Il CCNL riconosce ai lavoratori in forza al 31 dicembre 2008 a cui si applicava la “Disciplina speciale, Parte prima”, a partire dall’anno 2009 una erogazione annua ragguagliata a 11 ore e 10 minuti quale elemento individuale annuo di mensilizzazione non assorbibile, da erogarsi con la retribuzione del mese di dicembre.

In caso di risoluzione del rapporto di lavoro, al lavoratore spetta il pagamento dell’elemento sopra definito in proporzione dei dodicesimi maturati. La frazione di mese superiore ai 15 giorni sarà considerata, a questi effetti, come mese intero.

Pertanto, con la retribuzione del mese di dicembre i datori di lavoro saranno tenuti ad erogare tale elemento ai lavoratori ricadenti nell’ambito di applicazione della previsione in oggetto.

 

  1. CCNL Metalmeccanici (Industria): formazione e addestramento professionale

In via transitoria, i lavoratori che, in tutto o in parte, non abbiano fruito delle 24 ore di formazione di competenza del triennio 2017-2019, potranno fruirne entro il 31 dicembre 2021. Al termine di detto periodo esse decadranno.

 

  1. CCNL Metalmeccanici (Piccola industria – CONFIMI): contributi contrattuali

Nel mese di dicembre, i datori di lavoro sono tenuti ad effettuare una trattenuta a cedolino di Euro 35,00 a titolo di “quota associativa straordinaria”.

 

  1. CCNL Occhiali (Industria): elemento di garanzia retributiva

In assenza di contrattazione collettiva aziendale o nel caso in cui la contrattazione si chiuda senza un formale accordo entro il mese di novembre di ciascun anno, deve essere erogata ai dipendenti, con la retribuzione del mese di dicembre, una somma lorda annua a titolo perequativo, onnicomprensiva e non incidente sul TFR.

Tale importo lordo, con decorrenza dall’anno 2020, è pari ad Euro 330,00 annui.

 

  1. CCNL Penne, matite e spazzole (Industria): elemento di garanzia retributiva

In assenza di contrattazione collettiva aziendale o nel caso in cui la contrattazione si chiuda senza un formale accordo entro il mese di novembre di ciascun anno, il CCNL prevede che venga erogata, con la retribuzione del mese di dicembre, una somma lorda annua a titolo perequativo, onnicomprensiva e non incidente sul TFR.

Tale importo lordo, dal 2021, è pari ad Euro 300,00 annui.

 

  1. Aumento dei minimi retributivi dal 1° dicembre 2021

A decorrere dal 1° dicembre 2021 è previsto un aumento dei minimi retributivi tabellari dei seguenti contratti collettivi nazionali di lavoro:

  • CCNL Agricoltura (Cooperative);
  • CCNL Calzaturieri (Industria);
  • CCNL Calzaturieri (Piccola industria);
  • CCNL Cemento, calce (Industria);
  • CCNL Giocattoli, modellismo (Piccola industria);
  • CCNL Istituzioni socio-assistenziali (AGIDAE);
  • CCNL Occhiali (Piccola industria);
  • CCNL Ortofrutticoli ed agrumari;
  • CCNL Penne, matite e spazzole (Piccola industria);
  • CCNL Pubblici esercizi (Confcommercio);
  • CCNL Pubblici esercizi, ristorazione e turismo;
  • CCNL Servizi postali appaltati;
  • CCNL Stabilimenti balneari (Confcommercio);
  • CCNL Telecomunicazioni;
  • CCNL Trasporto a fune;
  • CCNL Turismo (Confesercenti).

 

  1. “Una tantum”

Nel mese di dicembre 2021 è prevista l’erogazione di importi a titolo di “una tantum” ai sensi dei seguenti contratti collettivi nazionali di lavoro:

  • CCNL Autoferrotranvieri (Mobilità);
  • CCNL Servizi postali appaltati.

 

HR VIRTUAL BREAKFAST “Decreto Fiscale: le novità in materia di lavoro” (HR Capital, 11 novembre 2021 – Bernardo Ardino, Antonello Gerardi)

Il prossimo giovedì 11 novembre torna in modalità webinar un nuovo HR Virtual Breakfast.

I nostri Consulenti del Lavoro, Bernardo Ardino e Antonello Gerardi, approfondiranno tutte le novità in materia di lavoro introdotte con il Decreto Fiscale.

L’evento si terrà dalle h 8.00 alle h 9.00 tramite la piattaforma Zoom.

AGENDA

  • Nuove disposizioni in materia di ammortizzatori sociali
  • Blocco dei licenziamenti
  • Rifinanziamento dell’indennità di malattia durante periodi di quarantena
  • Congedi parentali Covid 19
  • Novità in materia di sicurezza sul lavoro
  • Estensione del termine di pagamento  per  le  cartelle  di  pagamento notificate nel periodo dal 1° settembre 2021 al 31 dicembre 2021
  • Estensione della rateazione per i piani di dilazione

La partecipazione è gratuita, previa registrazione.

Clicca qui per registrarti.

 

Lavoratori impatriati: i chiarimenti dell’Agenzia delle Entrate sullo smart working all’estero

Con la risposta ad interpello n. 621/2021, l’Agenzia delle Entrate si è espressa in merito al regime fiscale applicabile ai lavoratori impatriati che, durante l’emergenza sanitaria da Covid-19, hanno svolto la propria attività lavorativa in modalità agile (c.d. “smart working”) all’estero anziché in Italia.

I fatti oggetto dell’istanza di interpello

La Società istante, in qualità di sostituto di imposta, ha chiesto chiarimenti all’Agenzia delle Entrate circa la possibilità di applicare il regime agevolato per lavoratori impatriati di cui all’art. 16 del D.Lgs. 147/2015 ad un proprio dipendente che, durante il 2020, ha lavorato in smart working nei Paesi Bassi.

In particolare, l’istante ha chiesto se “per il lavoratore che, nel corso del periodo di imposta 2020, ha trascorso all’estero più di 184 giorni, il reddito relativo ai giorni di lavoro svolti nei Paesi Bassi sia comunque da considerare come reddito prodotto in Italia e beneficiare dell’agevolazione nonostante il mancato rispetto del requisito della prevalenza dell’attività svolta in Italia nel corso dell’anno”.

La normativa di riferimento e la risposta dell’Agenzia delle Entrate

L’art. 16 del D.Lgs. 147/2015, così come da ultimo modificato dal c.d. Decreto Crescita, dispone che per fruire del trattamento agevolato, ovverosia la riduzione dell’imponibile fiscale del 70% per cinque anni di imposta, è necessario che il lavoratore:

  • trasferisca la propria residenza fiscale in Italia;
  • non sia stato residente in Italia nei due periodi di imposta precedenti il trasferimento e si impegni a permanere in Italia per almeno due anni;
  • svolga l’attività lavorativa prevalentemente nel territorio italiano.

Beneficiano di tale regime anche i cittadini, appartenenti all’Unione Europea o ad uno Stato Extra-UE con il quale risulti in vigore una convenzione contro le doppie imposizioni fiscali, i quali:

  • siano in possesso di un titolo di laurea e abbiano svolto continuativamente un’attività di lavoro dipendente (o autonomo o attività di impresa) fuori dall’Italia nei 24 mesi precedenti il trasferimento;
  • abbiano svolto continuativamente un’attività di studio fuori dall’Italia negli ultimi 24 mesi conseguendo un titolo accademico.

Tutto ciò premesso, l’Agenzia delle Entrate ha posto l’attenzione sul requisito che l’attività lavorativa sia svolta “prevalentemente nel territorio italiano”, richiamando la circolare n. 17/E del 23 maggio del 2017. Secondo detta circolare tale requisito “deve essere verificato in relazione a ciascun periodo di imposta e risulta soddisfatto se l’attività lavorativa è prestata nel territorio italiano per un periodo superiore a 183 giorni nell’arco dell’anno”.

Pertanto, a parere dell’Agenzia dell’Entrate, il lavoratore non può beneficiare dell’agevolazione fiscale in esame se non presta attività sul territorio italiano per almeno 183 giorni in un anno. Ciò non significa però che detta agevolazione sia non più applicabile: come chiarito dall’Agenzia delle Entrate, il beneficio è fruibile per gli anni in cui il requisito è soddisfatto. Resta fermo che gli altri anni concorreranno ugualmente al computo del quinquennio.

Nel caso di specie l’Agenzia delle Entrate ha osservato che “l’Istante non può applicare l’agevolazione fiscale di cui all’art. 16 del D.Lgs. 147/2021 ai redditi erogati al dipendente considerato che gli stessi non sono stati prodotti nel territorio italiano e che, pertanto, per il periodo di imposta 2020 l’attività lavorativa non è stata svolta prevalentemente nel territorio dello Stato”. Il lavoratore durante il 2020 ha, infatti, prestato attività lavorativa in Italia per soli 76 giorni (a fronte del minimo di 183 gg),

L’Agenzia delle Entrate fa presente, altresì, che il lavoratore, se il reddito prodotto dovesse essere assoggettato ad imposizione ai sensi dell’art. 15 della Convenzione contro le doppie imposizioni in vigore tra Italia e Paesi Bassi, potrà fruire del credito per le imposte estere nei limiti di cui all’art. 165 del TUIR.

L’incentivo fiscale per gli impatriati non richiede che il datore di lavoro sia italiano

Con la risposta ad interpello n. 596/2021 l’Agenzia delle Entrate si è espressa in merito al riconoscimento dell’incentivo fiscale per gli impatriati al lavoratore che, dall’estero, si reca in Italia per lavorare in modalità “smart working”.

I fatti oggetto dell’istanza di interpello

Il soggetto istante è un cittadino italiano, trasferitosi all’estero nell’anno 2013 ed iscritto dal 2019 all’Anagrafe degli italiani residenti all’estero (AIRE), il quale:

  • dal 30 giugno 2014 al 31 gennaio 2016 ha lavorato alle dipendenze di un datore di lavoro;
  • dal 1° febbraio 2016 è stato assunto da un nuovo datore di lavoro;
  • dal 1° maggio 2021 si è trasferito in Italia con il nucleo familiare per continuare a svolgere l’attività lavorativa alle dipendenze di tale datore di lavoro, in modalità “smart working”.

Inoltre, l’istante ha precisato che il 23 febbraio 2021 il datore di lavoro estero gli ha accordato di lavorare “a distanza dall’Italia come dipendente” per un periodo di almeno due anni. Il lavoratore, pertanto, ha chiesto chiarimenti in ordine alla possibilità di potere fruire del regime speciale per lavoratori impatriati, comprensivo dell’estensione di ulteriori cinque periodi d’imposta prevista in presenza di un figlio minore.

I requisiti previsti dalla normativa

Alla luce dell’interpello presentato, l’Agenzia delle Entrate ha ripercorso i principali tratti della normativa, che vedono l’articolo 16 del D.Lgs. 147/2015 elencare i requisiti soggettivi e oggettivi utili a definirne il campo di applicazione.

La citata disposizione è stata oggetto di diverse modifiche, operate dall’articolo 5 del D.L. 34 in vigore dal 1° maggio 2019, le quali trovano applicazione nei confronti dei soggetti che, a decorrere dal 30 aprile 2019, trasferiscono la residenza in Italia ai sensi dell’articolo 2 del TUIR.

L’Agenzia delle Entrate, nella sua risposta, ha evidenziato come, per fruire del trattamento fiscale agevolato, sia necessario che il lavoratore:

a) trasferisca la residenza nel territorio dello Stato ai sensi dell’articolo 2 del TUIR;

  1. b) non sia stato residente in Italia nei due periodi d’imposta antecedenti al trasferimento e si impegni a risiedere in Italia per almeno 2 anni;
  2. c) svolga l’attività lavorativa prevalentemente nel territorio italiano”.

Inoltre, ai sensi della medesima norma, sono destinatari del beneficio fiscale in esame “i cittadini dell’Unione europea o di uno Stato extra UE con il quale risulti in vigore una Convenzione contro le doppie imposizioni o un accordo sullo scambio di informazioni in materia fiscale che:

  1. a) sono in possesso di un titolo di laurea e abbiano svolto “continuativamente” un’attività di lavoro dipendente, di lavoro autonomo o di impresa fuori dall’Italia negli ultimi 24 mesi o più, ovvero
  2. b) abbiano svolto “continuativamente” un’attività di studio fuori dall’Italia negli ultimi 24 mesi o più, conseguendo un titolo di laurea o una specializzazione post lauream”.

Le conclusioni dell’Agenzia delle Entrate sul caso in esame

Alla luce delle previsioni normative illustrate, l’autorità fiscale ha ricordato che, in merito all’agevolazione qui trattata, sono stati forniti puntuali chiarimenti con circolare n. 33/E del 28 dicembre 2020.

Al paragrafo 7.5 di detta circolare viene precisato che “il citato articolo 16, come modificato dall’articolo 5, comma 1, del decreto-legge n. 34 del 2019, non richiede che l’attività sia svolta per un’impresa operante sul territorio dello Stato, pertanto, possono accedere all’agevolazione i soggetti che vengono a svolgere in Italia attività di lavoro alle dipendenze di un datore di lavoro con sede all’estero, o i cui committenti (in caso di lavoro autonomo o di impresa) siano stranieri (non residenti)”.

Con riferimento al caso di specie, l’Agenzia ha ritenuto che il lavoratore istante, qualora in possesso di tutti i requisiti previsti, “potrà beneficiare dell’agevolazione fiscale di cui all’articolo 16, comma 1, del d.lgs. n. 147 del 2015 […] per i redditi di lavoro dipendente prodotti in Italia a decorrere dal periodo d’imposta 2021, nel quale trasferisce la residenza fiscale in Italia, e per i successivi quattro periodi di imposta”.

Inoltre, la presenza di un figlio minorenne gli consentirà di fruire dell’incentivo per ulteriori cinque periodi d’imposta, con assoggettamento fiscale del reddito agevolato nella misura ridotta del 50%, ai sensi del comma 3-bis dell’articolo 16.

INPS: modalità di calcolo del “ticket” di licenziamento

Con la circolare n. 137 dello scorso 17 settembre, l’INPS ha reso note le modalità di calcolo del contributo di licenziamento a carico del datore di lavoro nei casi di licenziamento collettivo e per le aziende rientranti in area CIGS.

L’obbligo di versamento del “ticket”

L’Istituto ha operato una completa ricognizione sull’applicazione dell’obbligo di versamento del “ticket” o contributo di licenziamento, di cui all’art. 2, commi da 31 a 35, della legge n. 92/2012, valutando tutte le possibili opzioni che ne impongono il pagamento e fornendo precisazioni in ordine alla relativa determinazione.

L’Istituto, peraltro, ha ricalibrato contestualmente il proprio orientamento in merito alla quantificazione del contributo, preannunciando il recupero delle differenze eventualmente non versate dai datori di lavoro.

Entrando più nel dettaglio, l’INPS ha osservato che ai sensi dell’art. 2, comma 1, della legge n. 92/2012, così come successivamente modificato dall’art. 1, comma 250, lettera f), della legge n. 228/2012: “Nei casi di interruzione di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato per le causali che, indipendentemente dal requisito contributivo, darebbero diritto all’ASpI, intervenuti a decorrere dal 1° gennaio 2013, è dovuta, a carico del datore di lavoro, una somma pari al 41 per cento del massimale mensile di ASpI per ogni dodici mesi di anzianità aziendale negli ultimi tre anni. Nel computo dell’anzianità aziendale sono compresi i periodi di lavoro con contratto diverso da quello a tempo indeterminato, se il rapporto è proseguito senza soluzione di continuità o se comunque si è dato luogo alla restituzione di cui al comma 30”.

Da tale disposizione si evince come sia necessario prioritariamente determinare l’anzianità lavorativa del lavoratore cessato, applicando le regole di computo esposte dalla circolare n. 40/2020 dell’INPS.

Il contributo è calcolato in proporzione ai mesi di anzianità aziendale maturati dal lavoratore nel limite massimo di 36 mesi: l’importo dovuto è pari al 41% del massimale mensile NASpI per ogni 12 mesi di durata del rapporto di lavoro, mentre, per i periodi di lavoro inferiori all’anno, il contributo è determinato in proporzione al numero dei mesi di durata del rapporto di lavoro.

Quantificazione nei casi di licenziamento collettivo e di licenziamento in deroga al “blocco”

La misura del contributo in caso di licenziamento collettivo è determinata utilizzando per ogni singolo lavoratore i criteri sopraesposti e considerando altri due fattori, ossia se:

  • la dichiarazione di eccedenza del personale ha formato o meno oggetto dell’accordo sindacale di cui all’art. 4, comma 9, della legge n. 223/1991: nel caso non sia stata oggetto di accordo, a decorrere dal 1° gennaio 2017 il contributo è moltiplicato per 3 volte (cfr. l’art. 2, comma 35, della legge n. 92/2012);
  • l’azienda rientra nel campo di applicazione della CIGS ed è quindi tenuta alla contribuzione per il finanziamento dell’integrazione salariale straordinaria.

A decorrere dal 1° gennaio 2018, infatti, per ciascun licenziamento effettuato da un datore di lavoro tenuto alla contribuzione per il finanziamento dell’integrazione salariale straordinaria, l’aliquota percentuale del “ticket” di licenziamento è pari all’82%.

Sono esclusi dall’innalzamento dell’aliquota i licenziamenti collettivi la cui procedura sia stata avviata entro il 20 ottobre 2017, ancorché le interruzioni del rapporto di lavoro siano avvenute in data successiva al 1° gennaio 2018.

Inoltre, richiamando la normativa emergenziale COVID-19, nelle ipotesi in cui il datore di lavoro sia tenuto al versamento del “ticket” in quanto il rapporto di lavoro si è risolto per adesione del lavoratore all’accordo collettivo aziendale, il contributo è dovuto nella misura pari al 41% del massimale mensile NASpI per ogni 12 mesi di anzianità aziendale dello stesso negli ultimi 3 anni. Ciò, anche qualora si verifichi la contestuale risoluzione di più rapporti di lavoro di dipendenti che aderiscono alla citata fattispecie di accordo.

Relativamente al massimale NASPI che rappresenta la base di calcolo per determinare la misura del contributo dovuto, l’INPS ricorda che è annualmente determinato e comunicato con apposita circolare e che per l’anno 2021 è pari a 1.334,40 euro.

I controlli predisposti dall’INPS

L’Istituto ha evidenziato, infine, che, a seguito di recenti controlli sulle proprie banche dati, è emerso che la modalità di calcolo del “ticket” di licenziamento, nel corso degli anni, non è sempre avvenuta conformemente all’art. 2, comma 31, della legge n. 92/2012. Ciò in quanto non è  stata correttamente valorizzata la base di calcolo del contributo, pari all’importo del massimale annuo AspI/NASpI, con la conseguenza che alcune aziende hanno versato importi maggiori di quelli dovuti.

Per le interruzioni dei rapporti di lavoro avvenute a decorrere dal 1° maggio 2015, data di istituzione della NASpI, invece, il contributo versato dalle aziende risulta in taluni casi di importo inferiore a quello dovuto.

Sul punto, l’Istituto ha evidenziato come, con apposito successivo messaggio, saranno fornite le indicazioni operative per la regolarizzazione dei periodi di paga scaduti alla data di pubblicazione della circolare in commento.

Contratto a tempo determinato: le indicazioni operative dell’INL sulle nuove causali

Con la nota n. 1363 dello scorso 14 settembre 2021, l’Ispettorato Nazionale del Lavoro (“INL”) ha fornito indicazioni operative circa la modifica della disciplina delle causali da inserire nei contratti a termine.

Riferimenti normativi

Alla disciplina del lavoro a tempo determinato contenuta nel D.Lgs. n. 81/2015 – così come modificato dal D.L. 87/2018, convertito in Legge 96/2018 – sono state apportate variazioni sostanziali a seguito dell’emanazione del D.L. n. 73, convertito con modificazioni dalla L. 23 luglio 2021, n. 106.

In particolare, l’articolo 19 del D.Lgs. n. 81/2015 è stato modificato con l’inserimento della lettera b-bis) al comma 1 e del comma 1-bis.

Nello specifico il legislatore ha previsto la possibilità di inserire nei contratti a termine una nuova tipologia di causale determinata dai contratti collettivi nazionali, territoriali o aziendali stipulati da associazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale e dai contratti collettivi aziendali stipulati dalle loro rappresentanze sindacali aziendali ovvero dalla rappresentanza sindacale unitaria. Inoltre, i datori di lavoro potranno stipulare un primo contratto a termine di durata superiore ai 12 mesi, ma comunque non eccedente i 24 mesi di durata, nel caso si verifichino specifiche esigenze previste dai contratti collettivi di lavoro fino al 30 settembre 2022.

I chiarimenti dell’INL

In primo luogo, l’INL ricorda che le causali sono necessarie non solo per i contratti superiori a 12 mesi, ma anche nelle seguenti ipotesi:

  1. proroga del contratto quando si superano i 12 mesi (articolo 21, comma 1, D.Lgs. 81/2015);
  2. rinnovo del contratto a termine, sempre (articolo 21, comma 1, D.Lgs. 81/2015);
  3. ulteriore contratto a tempo determinato, raggiunta la soglia dei 24 mesi, stipulato presso l’ITL e di durata massima di 12 mesi (articolo 19, comma 3, D.Lgs. 81/2015).

La novella normativa impatta, ovviamente, in ognuno dei profili sopra individuati, in quanto il rinvio contenuto nell’articolo 21, comma 1 (di fatto, il contratto ulteriore presso l’ITL rientra comunque nella disciplina dell’obbligo di causale, essendo qualificabile come rinnovo) rimanda direttamente all’articolo 19, comma 1.

L’intervento della contrattazione collettiva (“specifiche esigenze previste dai contratti collettivi di cui all’articolo 51”) per la sua validità, deve rispondere a 2 requisiti:

  1. a) i contratti collettivi “legittimati” devono essere quelli previsti dall’articolo 51 del D.Lgs. 81/2015, ovverosia i “contratti collettivi nazionali, territoriali o aziendali stipulati da associazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale e i contratti collettivi aziendali stipulati dalle loro rappresentanze sindacali aziendali ovvero dalla rappresentanza sindacale unitaria”;
  2. b) i contratti collettivi devono individuare “specifiche esigenze” in base alle quali è possibile apporre, ove necessario, un termine al contratto.

Se, sulla rappresentatività, rimangono immutate le incertezze applicative, non essendo disponibili indici certi di misurazione, è bene prestare attenzione soprattutto alla necessità che gli accordi “specifichino le esigenze”. Correttamente, l’ITL ritiene che la contrattazione collettiva debba individuare ipotesi concrete, senza, quindi, utilizzare formulazioni generiche, citando come esempio le note “ragioni tecniche, organizzative, produttive”.

Quanto sopra risulta di particolare interesse sia come utile supporto negli accordi che si vorranno sottoscrivere alla luce della nuova delega, sia come chiave interpretativa sulla possibilità di richiamare previsioni già contenute generalmente nella contrattazione collettiva di livello nazionale. Pur in assenza di una delega espressa, la contrattazione collettiva nazionale si è infatti spinta, in passato, nell’individuazione di causali di utilizzo del contratto a termine e, pertanto, la novella normativa va a togliere ogni dubbio di legittimità a tali disposizioni contrattuali. Disposizioni che, in assenza, avrebbero potuto giocare un ruolo nel dettagliare/integrare le causali in caso di contenzioso, ma senza alcuna “forza di legge”.

Rispetto alla contrattazione di prossimità, ex articolo 8, D.L. 138/2011 – che poteva e può essere sfruttata in deroga rispetto al tassativo sistema di causali –la contrattazione ex articolo 51, D.Lgs. 81/2015 non richiede la sussistenza delle finalità previste dall’articolo 8 e non ha la necessità di applicare meccanismi maggioritari nella controparte sindacale.

Come anticipato, la novella normativa è stata accompagnata dalla previsione che “il termine di durata superiore a dodici mesi, ma comunque non eccedente ventiquattro mesi, di cui al comma 1 del presente articolo, può essere apposto ai contratti di lavoro subordinato qualora si verifichino specifiche esigenze previste dai contratti collettivi di lavoro di cui all’articolo 51, ai sensi della lettera b-bis) del medesimo comma 1, fino al 30 settembre 2022”.

Come opportunamente evidenziato dalla nota dell’INL, la provvisorietà della disposizione riguarda una specifica fattispecie in cui è necessario utilizzare le causali, cioè quando viene apposto al primo contratto un termine superiore ai 12 mesi.

Pertanto, ne discendono due conseguenze:

  1. per utilizzare le causali contrattuali in caso di contratti di durata superiore a 12 mesi, il termine ultimo per la sottoscrizione del contratto individuale è il 30 settembre 2022, a prescindere dalla data di scadenza, che potrà essere successiva;
  2. successivamente alla data del 30 settembre 2022, le causali della contrattazione collettiva potranno essere ancora utilizzate nelle rimanenti fattispecie in cui sussiste l’obbligo di causale che non rientrano nel comma 1-bis (la proroga superati i 12 mesi, il rinnovo del contratto e l’ulteriore contratto presso l’ITL).

Novembre 2021: NOVITA’ E RINNOVI CCNL

  1. CCNL Farmacie private: assistenza sanitaria integrativa

A decorrere dal 1° novembre 2021, i datori di lavoro dovranno versare un contributo mensile pari a 13 Euro per ciascun dipendente assunto a tempo indeterminato, non computabile ai fini della quantificazione del TFR.

Tale contributo, previsto dall’accordo di rinnovo del CCNL del 7 settembre 2021, è dovuto nell’ottica di assicurare ai lavoratori prestazioni assistenziali integrative del Servizio Sanitario Nazionale.

Le parti stipulanti l’accordo hanno disposto che il sistema di assistenza sanitaria integrativa dovrà essere operante dal 1° gennaio 2022, una volta individuate le modalità di erogazione. In mancanza, il contributo mensile in oggetto sarà corrisposto direttamente ai lavoratori come elemento distinto della retribuzione (“EDR”).

 

  1. CCNL Farmacie private: permessi

L’accordo di rinnovo del CCNL ha previsto che ai lavoratori assunti dal 1° novembre 2021 da farmacie fino a 40 dipendenti, fermo restando il godimento delle ore di permesso già previste dal CCNL, le ulteriori 40 ore permesso verranno riconosciute in misura pari al 50%, decorsi tre anni dall’assunzione e in misura pari al 100% decorsi sei anni dall’assunzione. A tal fine, per il calcolo degli anni di servizio si terrà conto anche del servizio prestato presso altre farmacie, che dovrà essere documentato per iscritto all’atto dell’assunzione, a pena di decadenza.

 

  1. CCNL Farmacie private: quadri

Con decorrenza dal 1° novembre 2021, la categoria dei quadri sarà articolata in tre aree professionali, a ciascuna delle quali corrisponderà un livello retributivo commisurato alla diversificazione delle responsabilità secondo l’articolazione di seguito indicata.

  • Area Q1: come già previsto dal C.C.N.L., Direttore responsabile;
  • Area Q2: appartiene a tale area il farmacista collaboratore che abbia maturato un elevato grado di specializzazione, possieda specifiche competenze tecnico professionali (attestate anche mediante la proficua partecipa rione a corsi di formazione) e svolga una o più delle mansioni di cui all’art. 4;
  • Area Q3: il farmacista collaboratore dopo 24 mesi di servizio nella qualifica.

 

  1. CCNL Metalmeccanica (Piccola industria): contributi sindacali

In occasione del rinnovo del CCNL, i sindacati stipulanti FIM, FIOM e UILM chiedono ai lavoratori non iscritti al sindacato una quota associativa straordinaria di 35 Euro, che dovrà essere trattenuta dai datori di lavoro sulla retribuzione afferente al mese di novembre 2021.

 

  1. CCNL Pubblici esercizi (Confcommercio), CCNL Pubblici esercizi, ristorazione e turismo, CCNL Stabilimenti balneari (Confcommercio), CCNL Turismo (Confesercenti): premio di risultato

Qualora non dovesse essere definito, nonostante la presentazione di una piattaforma integrativa, un accordo sul premio di risultato entro il 31ottobre 2021, i datori di lavoro saranno tenuti ad erogare, con la retribuzione del mese di novembre 2021, i seguenti importi:

Livello

Euro

A, B

186,00

1, 2, 3

158,00

4, 5

140,00

6s, 6, 7

112,00

 

In alternativa, a seguito di accordo aziendale/territoriale, l’azienda sarà tenuta a destinare la somma di 140 Euro a strumenti di welfare, da riproporzionare per il personale a tempo parziale.

 

  1. CCNL Autostrade e trafori (Concessionari): contratto a tempo parziale

Ai soli lavoratori con contratto a tempo parziale e indeterminato di durata pari a 880 ore annue, in forza al 16 dicembre 2019, è data facoltà di richiedere all’azienda di elevare stabilmente a 960 ore la durata minima contrattuale annua della prestazione lavorativa.

Le richieste dei lavoratori interessati possono essere presentate in alcune precise “finestre temporali” e, in particolare, entro il 30 novembre 2021 con riguardo alle prestazioni lavorative decorrenti dal 1° gennaio 2022.

 

  1. CCNL Metalmeccanici (Cooperative): contributi sindacali

Le aziende, mediante affissione in bacheca da effettuarsi fino al 30 novembre 2021, sono tenute a comunicare ai lavoratori che, in occasione del rinnovo del CCNL, i sindacati stipulanti FIM, FIOM e UILM chiedono ai lavoratori non iscritti al sindacato una quota associativa straordinaria di 35,00 Euro, da trattenere sulla retribuzione afferente al mese di dicembre.

Entro il 15 novembre 2021 i lavoratori potranno esprimere il consenso o il rifiuto alla trattenuta, mediante un apposito modulo da consegnare al datore di lavoro.

Inoltre, le aziende sono tenute a dare comunicazione alle organizzazioni sindacali, tramite le associazioni imprenditoriali, del numero delle trattenute effettuate.

 

  1. CCNL Metalmeccanici – piccola industria (CONFIMI): contributi sindacali

Le aziende, mediante affissione in bacheca da effettuarsi fino al 30 novembre 2021, sono tenute a comunicare ai lavoratori che, in occasione del rinnovo del CCNL, i sindacati stipulanti FIM e UILM chiedono ai lavoratori non iscritti al sindacato una quota associativa straordinaria di 35,00 Euro, da trattenere sulla retribuzione afferente al mese di dicembre.

Entro il 15 novembre 2021 i lavoratori potranno esprimere il consenso o il rifiuto alla trattenuta, mediante un apposito modulo da consegnare al datore di lavoro.

 

  1. Aumento dei minimi retributivi dal 1° novembre 2021

A decorrere dal 1° novembre 2021 è previsto un aumento dei minimi retributivi tabellari dei seguenti contratti collettivi nazionali di lavoro:

  • CCNL Farmacie private;
  • CCNL Ombrelli e ombrelloni (Industria);
  • CCNL Pelli e cuoio (Industria).

 

  1. “Una tantum”

Nel mese di novembre 2021 è prevista l’erogazione di importi a titolo di “una tantum” ai sensi dei seguenti contratti collettivi nazionali di lavoro:

  • CCNL Istituzioni socio-assistenziali – Misericordie.

 

Videosorveglianza e controlli a distanza: il Jobs Act ha mantenuto in vita il regime sanzionatorio dello Statuto dei lavoratori (Andrea Di Nino, Sintesi – Ordine dei Consulenti del Lavoro, ottobre 2021)

La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 32234 del 23 aprile 2021, ha affermato che il regime sanzionatorio previsto dalla legge n. 300/1970 e riferito al controllo a distanza dei lavoratori causato dai sistemi di videosorveglianza è stato mantenuto in vigore a seguito dell’emanazione del Jobs Act.

In particolare, i fatti di causa hanno visto un datore di lavoro predisporre, all’interno del proprio esercizio commerciale, un sistema di videosorveglianza. Come si evince dalla sentenza della Suprema Corte, di fatto, l’avvenuta installazione di tale sistema implicava un controllo, da parte aziendale, della “attività svolta all’interno dell’esercizio commerciale dagli addetti alla vendita”.

A seguito di un accesso ispettivo avvenuto nell’esercizio commerciale, è stato redatto un verbale che rilevava come all’interno del locale commerciale vi fosse presenza di un sistema di videosorveglianza che non rispettava le prescrizioni previste dalla normativa.

Sul punto, giova ricordare come l’art. 4 della legge n. 300/1970 preveda la necessità di un accordo sindacale o di una specifica autorizzazione da parte dell’Ispettorato del Lavoro al fine di implementare, nei luoghi di lavoro, impianti di videosorveglianza “dai quali derivi anche la possibilità di controllo a distanza dell’attività dei lavoratori”.

Tali strumenti, inoltre, “possono essere impiegati esclusivamente per esigenze organizzative e produttive, per la sicurezza del lavoro e per la tutela del patrimonio aziendale”.

In un primo momento, il giudice di primo grado aveva assolto il datore di lavoro circa la violazione di tale previsione, essendo stato ritenuto che “per effetto della entrata in vigore del D.Lgs. n. 196/2003 la condotta contestata non fosse più prevista dalla legge come reato”.

Avverso tale sentenza, il Procuratore generale della Corte di appello di Campobasso ha interposto ricorso per cassazione, osservando che – diversamente da quanto ritenuto dal Tribunale – la disposizione che si assumeva essere stata violata dal datore di lavoro non avesse subito, in verità, alcuna abrogazione.

Il ricorso ha trovato accoglimento da parte della Corte di Cassazione, che lo ha ritenuto fondato, osservando che “anche a seguito dell’avvenuta abrogazione degli art. 4 e 38 della legge n. 300 del 1970, costituisce reato l’uso di impianti audiovisivi e altre apparecchiature per finalità di controllo a distanza dell’attività dei lavoratori, in quanto sussiste continuità normativa tra l’abrogata fattispecie e quella attualmente prevista dall’art. 171 in relazione all’art. 114 del D.Lgs. n. 196 del 2003, come rimodulata dall’art. 23 del D.Lgs. n. 151 del 2015, avendo la normativa sopravvenuta mantenuto integra la disciplina sanzionatoria per la violazione del citato art. 4”.

I giudici di legittimità hanno dunque sottolineato come il regime sanzionatorio per la violazione in oggetto non sia stato abrogato, bensì mantenuto in vita da parte del Jobs Act. In particolare, tale regime prevede che le violazioni di quanto previsto dal citato articolo 4 siano punite con “ammenda da L. 300.000 a L. 3.000.000 o con l’arresto da 15 giorni ad un anno”, con applicazione congiunta “nei casi più gravi”, ai danni del datore di lavoro.

È stata così annullata la sentenza di primo grado, la quale aveva assolto il datore di lavoro, disponendo il necessario riesame da parte del tribunale competente.

Gli elementi tipici della subordinazione nel rapporto di lavoro giornalistico: l’orientamento della Cassazione (Andrea Di Nino, Sintesi – Ordine dei Consulenti del Lavoro, settembre 2021)

La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 21793 del 29 luglio 2021, ha affermato che l’attività giornalistica resa in forma di collaborazione ma in maniera continuativa e ad alcune determinate condizioni implica la sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato.

In particolare, i fatti di causa hanno visto una lavoratrice autonoma agire giudizialmente al fine di ottenere l’accertamento della sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato presso un gruppo editoriale. La lavoratrice, inoltre, richiedeva la condanna del datore di lavoro al pagamento delle differenze retributive dovute ai sensi del CCNL a seguito della conversione.

In un primo momento, la Corte di appello di Trieste, in parziale accoglimento del ricorso presentato dalla lavoratrice ed in riforma della sentenza del tribunale competente, accertava la sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato nel periodo dal gennaio 2010 al marzo 2013. La domanda di condanna al pagamento delle differenze retributive veniva, tuttavia, dichiarata nulla.

I giudici di merito avevano infatti accertato che nel periodo in contestazione la lavoratrice aveva seguito con continuità la cronaca locale, avendo la responsabilità di uno specifico settore informativo, del quale aveva assicurato la copertura durante il corso del rapporto di lavoro.

La società editrice, in opposizione al giudizio di secondo grado, ricorreva in Cassazione rivendicando l’inesistenza di un rapporto di collaborazione fisso tra le parti, poiché non risultava dimostrato che alla lavoratrice fosse stata chiesta, nel corso del rapporto di lavoro, alcuna disponibilità tra una prestazione giornalistica e l’altra.

Inoltre, il datore di lavoro riteneva che nel rapporto intercorso tra le parti non fossero fattualmente ravvisabili i tipici elementi rilevatori della subordinazione, sia in generale che con specifico riguardo all’attività giornalistica. La lavoratrice, infatti, lavorava in maniera discontinua e con un impegno circoscritto nel tempo; non aveva mai, inoltre, dovuto garantire la propria presenza tra una prestazione di lavoro e l’altra, né era tenuta ad assicurare la propria reperibilità; non doveva, infine, chiedere ferie. A dire del datore di lavoro, in definitiva, la lavoratrice non poteva dirsi assoggettata ad alcun potere direttivo, organizzativo e disciplinare.

I giudici della Corte di Cassazione, nell’esaminare il ricorso presentato dall’editore, hanno osservato che “nell’ambito del lavoro giornalistico per la figura del collaboratore fisso rileva la continuità dell’apporto, limitato, di regola, ad offrire servizi inerenti ad un settore informativo specifico di competenza”. Attingendo da consolidata giurisprudenza, la Suprema Corte ha ribadito come per “continuità dell’apporto” si intenda lo svolgimento di un’attività non occasionale, “rivolta ad assicurare le esigenze formative e informative di uno specifico settore”, a cui si affiancano la “responsabilità di un servizio, che implica la sistematica redazione di articoli su specifici argomenti o rubriche” e il “vincolo di dipendenza, per effetto del quale l’impegno del collaboratore di porre la propria opera a disposizione del datore di lavoro permane anche negli intervalli fra una prestazione e l’altra”.

In sostanza, la Cassazione indica che la continuità di prestazione risulta fondata quando il collaboratore fisso, pur non garantendo quotidianamente la propria opera, assicuri, conformemente ad un mandato, “una prestazione non occasionale, rivolta a soddisfare le esigenze formative o informative riguardanti uno specifico settore di sua competenza”.

Altresì, sussiste un vincolo di dipendenza nei casi in cui “l’impegno del collaboratore fisso di porre a disposizione la propria opera non venga meno tra una prestazione e l’altra in relazione agli obblighi degli orari, legati alla specifica prestazione e alle esigenze di produzione, e di circostanza derivanti dal mandato conferitogli”.

Si concretizza, infine, responsabilità di un servizio qualora al collaboratore fisso sia affidato l’impegno di redigere “normalmente e con carattere di continuità articoli su specifici argomenti o compilare rubriche”.

Alla luce delle considerazioni effettuate, la Cassazione acclara come nel secondo grado di giudizio sia stato accertato che la prestazione della lavoratrice era stata resa “continuativamente ed in maniera tutt’altro che occasionale”. Poteva infatti variare il numero degli articoli redatti, ma la prestazione era pressoché quotidiana, con eccezione della sola domenica.

Inoltre, è emerso come la lavoratrice avesse effettivamente la responsabilità di un settore, in relazione al quale lei stessa proponeva i temi da trattare.

È stato altresì riscontrato che la lavoratrice era inserita nell’organizzazione aziendale ed assoggettata alle direttive dei capi servizio di cui doveva rispettare i tagli e l’enfasi sulle notizie suggeriti. In definitiva, è stato accertato che le modalità con le quali si svolgeva la prestazione rivelavano la disponibilità della lavoratrice anche negli intervalli di tempo non lavorati.

Pertanto, la Corte di Cassazione ha respinto il ricorso del datore di lavoro, condannandolo al pagamento delle relative spese.

 

Distacco e comunicazioni obbligatorie: pubblicato il Decreto ministeriale

Il D.Lgs. n. 136/2016 (il “Decreto”), attuativo della Direttiva Europea 2014/67/UE, regolamenta l’istituto del distacco transnazionale di lavoratori nell’ambito di una prestazione di servizi.

In particolare, l’articolo 10 del Decreto pone una serie di obblighi amministrativi in capo all’impresa straniera (“la Distaccante”) che intende distaccare uno o più lavoratori presso un’impresa avente sede in Italia (“la Distaccataria”).

La normativa prevede tre diverse ipotesi di distacco:

  • da parte di una impresa avente sede in uno Stato estero presso una filiale in Italia;
  • da parte della predetta impresa presso un’impresa italiana del gruppo cui essa appartenente (c.d. distacco infragruppo);
  • nell’ambito di un contratto di natura commerciale (ad es. appalto di servizi) stipulato con un committente (impresa o altro destinatario) avente sede legale o operativa in Italia.

Pertanto, ogniqualvolta si configura una delle suddette ipotesi la Distaccante è tenuta a:

  1. raccogliere e conservare tutta la documentazione in materia di lavoro;
  1. designare un referente elettivamente domiciliato in Italia, incaricato di esibire, inviare e ricevere documenti (ad es. richieste di informazioni e di documentazione, notifica dei verbali di primo accesso e di accertamento delle violazioni) in nome e per conto dell’impresa distaccante, ivi compresa la formale notifica di atti alla società stessa da parte del personale di vigilanza (art. 10, comma 3, lett. b);
  1. designare una persona, anche coincidente con quella di cui sopra, che agisca in qualità di rappresentante legale e sindacale, al fine di mettere in contatto le parti sociali interessate con il prestatore di servizi per una eventuale negoziazione collettiva (art. 10, comma 4);
  1. effettuare – entro le ore 24 del giorno antecedente all’inizio del distacco – la comunicazione preventiva di distacco del personale impiegato in Italia al Ministero del Lavoro e delle politiche sociali (Modello UNI_Distacco_UE).

L’art. 1, comma 1, lett. d), del D.Lgs. 122/2020, di recepimento della Direttiva comunitaria 2018/957, ha introdotto nel Decreto l’art. 4-bis, avente ad oggetto l’ipotesi del “distacco di lunga durata”. In particolare, lo stesso dispone che “se la durata effettiva di un distacco supera dodici mesi ai lavoratori distaccati si applicano, se più favorevoli […] tutte le condizioni di lavoro e di occupazione previste in Italia da disposizioni normative e dai contratti collettivi nazionali e territoriali stipulati da organizzazioni dei lavoratori e dei datori di lavoro comparativamente più rappresentative sul piano nazionale, ad eccezione di quelle concernenti:

  1. a) le procedure e le condizioni per la conclusione e la cessazione del contratto di lavoro;
  2. b) le clausole di non concorrenza;
  3. c) la previdenza integrativa di categoria.

[…]

In caso di sostituzione di uno o più lavoratori distaccati per svolgere le medesime mansioni nello stesso luogo, la durata del distacco, ai fini del calcolo del periodo di cui al comma 1, è determinata dalla somma di tutti i periodi di lavoro prestato dai singoli lavoratori. L’identità delle mansioni svolte nel medesimo luogo è valutata tenendo conto anche della natura del servizio da prestare, del lavoro da effettuare e del luogo di svolgimento della prestazione lavorativa”.

La comunicazione obbligatoria – Modello UNI_Distacco_UE

Il modello UNI-Distacco_UE si compone di diverse sezioni in cui devono essere riportati i seguenti dati:

  • azienda distaccante e azienda distaccataria nonché i dati di entrambi i rappresentanti legali;
  • referente (art. 10, comma 3, lettera b), ovverosia il soggetto incaricato di esibire, inviare e ricevere documenti in nome della Distaccante;
  • referente (art. 10, comma 4), ovverosia il soggetto che agirà come rappresentate sindacale;
  • luogo e la durata del distacco;
  • dati anagrafici del lavoratore distaccato in Italia.

Il Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, recependo le novità introdotte dal D.Lgs. 122/2020, il 6 agosto 2021, ha pubblicato il proprio Decreto n. 170 che definisce i nuovi standard e le regole per la trasmissione telematica delle comunicazioni dovute dai prestatori di servizi al Ministero in relazione ai lavoratori distaccati di lunga durata in Italia.

In particolare, il suddetto decreto, oltre a confermare la necessità di inserire i dati sopra elencati, introduce nella comunicazione obbligatoria UNI_Distacco_UE due nuove sezioni:

  • la sezione relativa alla comunicazione della notifica motivata per i distacchi di lunga durata: all’interno di detta sezione la Distaccante deve motivare il “distacco di lunga durata” al fine di garantire al lavoratore distaccato le maggiori tutele previste dall’art. 4 bis del D. Lgs 136/2016 e riportate nel paragrafo precedente;
  • la sezione in cui la Distaccante comunica la sostituzione di uno o più lavoratori distaccati per svolgere le medesime mansioni nello stesso luogo: in detta sezione la Distaccante dovrà fornire informazioni circa il lavoratore sostituito e tener conto del periodo in cui lo stesso è stato distaccato.

Il rinnovato modello di UNI_Distacco_UE sarà operativo sull’apposito sito istituzionale del Ministero del Lavoro e delle Politiche sociali una volta che il Decreto Ministeriale in questione verrà registrato da parte della Corte di Conti e successivamente pubblicato.

Corte di Giustizia Europea: i minimi retributivi tra le clausole inderogabili

La Corte di Giustizia Europea, con sentenza del 15 luglio 2021, nell’ambito di due distinti procedimenti presi in esame congiuntamente, ha osservato che non sono derogabili convenzionalmente le norme riguardanti la retribuzione minima del Paese in cui il lavoratore distaccato ha svolto abitualmente la propria attività.

Il procedimento C152/20

I fatti hanno visto due lavoratori citare il proprio datore di lavoro dinanzi al competente tribunale rumeno affinché venisse condannato a pagare la differenza tra le retribuzioni effettivamente percepite e le retribuzioni minime alle quali, a loro avviso, avrebbero avuto diritto in forza della normativa italiana relativa alla retribuzione minima stabilita dal contratto collettivo di settore.

In particolare, i lavoratori ritenevano che la normativa italiana sulla retribuzione minima fosse a loro applicabile in forza dell’articolo 8 del regolamento europeo “Roma I”. Sebbene i contratti fossero stati conclusi in Romania, era in Italia che avevano svolto abitualmente le loro funzioni. In merito, essi sostenevano che il luogo a partire dal quale avevano svolto le loro missioni, avevano ricevuto istruzioni e nel quale erano tornati al termine delle stesse, si trovava in Italia, dove, peraltro, sarebbero state effettuate la maggior parte delle attività di trasporto.

Nel resistere, il datore di lavoro osservava che:

  • i due dipendenti avevano lavorato su autocarri immatricolati in Romania e sulla base di licenze di trasporto rilasciate conformemente alla normativa rumena applicabile e
  • la comunicazione delle istruzioni e l’organizzazione attinenti all’attività svolta erano avvenute in Romania.

Il procedimento C218/20

Il procedimento principale nella causa C-218/20 verte sulla legge applicabile alla remunerazione di un conducente di autocarri rumeno, impiegato presso una società rumena, che aveva svolto la sua attività esclusivamente in Germania.

Al contratto di lavoro erano accluse due clausole:

  • una ai sensi della quale i contenuti di tale contratto erano integrati dalle previsioni della legge n. 53/2003 e
  • una in forza della quale le controversie relative ad esso dovevano essere trattate dall’organo giurisdizionale competente ratione materiae e ratione loci.

Il contratto di lavoro non menzionava esplicitamente il luogo in cui il lavoratore avrebbe dovuto esercitare la sua attività: sul punto, questi eccepiva che il luogo a partire dal quale aveva svolto le sue missioni e ricevuto le sue istruzioni era la Germania. Inoltre, lo stesso adduceva che gli autocarri utilizzati erano parcheggiati in Germania e le missioni di trasporto effettuate si erano svolte all’interno dei confini di tale Stato.

Con ricorso proposto dinanzi al giudice del rinvio, il sindacato rumeno di cui il lavoratore era membro chiedeva che il datore di lavoro fosse condannato a pagargli la differenza tra le retribuzioni effettivamente percepite e la retribuzione minima alla quale avrebbe avuto diritto in forza del diritto tedesco.

A dire del sindacato, infatti, la normativa tedesca sulla retribuzione minima si applicava al rapporto di lavoro in forza dell’articolo 8 del regolamento europeo “Roma I”. Sebbene il contratto fosse stato concluso in Romania, era in Germania che il lavoratore aveva svolto abitualmente le sue funzioni, maturando dunque il diritto a beneficiare della retribuzione minima prevista dalla normativa tedesca.

Secondo il datore di lavoro, invece, era stato specificamente pattuito che il contratto individuale di lavoro sarebbe stato regolamentato dal diritto del lavoro rumeno.

L’orientamento della Corte di Giustizia Europea

In via preliminare, la Corte ha constatato che, in entrambi i casi, non appare chiaro se i conducenti di autocarri fossero lavoratori distaccati nell’ambito di una prestazione di servizi oppure lavoratori che, pur non avendo tale qualità, svolgessero abitualmente la loro attività in un paese diverso da quello in cui aveva sede il datore di lavoro.

La Corte ha osservato come l’articolo 8 del regolamento Roma I stabilisca norme speciali di conflitto di leggi relative al contratto individuale di lavoro. Norme che si applicano quando, in esecuzione del contratto, il lavoro è svolto in almeno uno Stato diverso da quello della legge scelta. Il paragrafo 1 di detto articolo prevede, in particolare, che:

  • il contratto individuale di lavoro è disciplinato dalla legge scelta dalle parti conformemente all’articolo 3 di tale regolamento e
  • tale scelta non può condurre al risultato di privare il lavoratore della protezione assicuratagli dalle disposizioni a cui non è permesso derogare convenzionalmente in forza della legge che sarebbe applicabile al contratto in mancanza di una scelta siffatta.

Se tali disposizioni offrono al lavoratore interessato una protezione migliore rispetto a quelle previste dalla legge scelta” – ha osservato la Corte – “esse prevalgono su queste ultime mentre, mentre […] la legge scelta rimane applicabile al resto del rapporto contrattuale“.

A tal riguardo, viene rilevato che l’articolo 8, paragrafo 2, del regolamento europeo “Roma I” rinvia alla legge del paese nel quale o, in mancanza, a partire dal quale il lavoratore, in esecuzione del contratto di lavoro, svolge abitualmente la sua attività.

Il regolamento “mira quindi a garantire, nei limiti del possibile, il rispetto delle disposizioni che garantiscono la protezione del lavoratore previste dal diritto del paese in cui quest’ultimo esercita le sue attività professionali“.

La corretta applicazione del regolamento in esame implica che l’organo giurisdizionale nazionale:

  • in primis, identifichi la legge che sarebbe stata applicabile in mancanza di scelta e determini le regole alle quali, conformemente a quest’ultimo, non è permesso derogare convenzionalmente e
  • in un secondo tempo, confronti il livello di protezione di cui beneficia il lavoratore in forza di tali norme con quello previsto dalla legge scelta dalle parti. Qualora il livello previsto dalle suddette norme garantisca un migliore livello di protezione, occorrerà applicare queste stesse norme.

Nel caso di specie, il giudice del rinvio sembra ritenere che, a causa dei luoghi nei quali i conducenti hanno abitualmente svolto il loro lavoro, talune disposizioni della legge italiana e della legge tedesca relative alla retribuzione minima potrebbero, in forza dell’articolo 8, paragrafo 1, del regolamento Roma I, applicarsi al posto della legge rumena scelta dalle parti.

In merito poi alla questione se siffatte norme costituiscano disposizioni alle quali non è permesso derogare convenzionalmente ai sensi di tale articolo, la Corte rileva che “dalla formulazione stessa di detta disposizione risulta che tale questione deve essere valutata conformemente alla legge che sarebbe stata applicabile in mancanza di scelta. Sarà, dunque, lo stesso giudice del rinvio a dover interpretare la norma nazionale di cui trattasi“.

Secondo la Corte, le norme relative alla retribuzione minima del paese in cui il lavoratore subordinato ha svolto abitualmente la sua attività possono, in linea di principio, essere qualificate come «disposizioni alle quali non è permesso derogare convenzionalmente» in virtù della legge che, in mancanza di scelta, sarebbe stata applicabile”, ai sensi dell’articolo 8, paragrafo 1, del regolamento europeo “Roma I”.

In considerazione di quanto precede, per entrambi i procedimenti, la Corte ha dichiarato che l’articolo 8, paragrafo 1, del regolamento Roma I “deve essere interpretato nel senso che, qualora la legge che disciplina il contratto individuale di lavoro sia stata scelta dalle parti di tale contratto e sia diversa da quella applicabile […], si deve escludere l’applicazione di quest’ultima, ad eccezione delle «disposizioni alle quali non è permesso derogare convenzionalmente» secondo la stessa, ai sensi dell’articolo 8, paragrafo 1, di detto regolamento, fra le quali possono rientrare, in linea di principio, le norme relative alla retribuzione minima“.

Tribunale di Foggia: la collocazione in cassa non sospende il comporto

Con l’ordinanza dello scorso 17 luglio, il Tribunale di Foggia ha affermato che i giorni in cui il lavoratore – già assente per malattia – viene posto in Cassa Integrazione vanno computati ai fini del superamento del periodo di comporto non avendo il datore il potere di modificare il titolo dell’assenza.

I fatti di causa

Nel caso di specie, un dipendente veniva licenziato per aver fruito di un periodo di malattia di complessivi giorni 430 a fronte dei 420 giorni previsti dal contratto collettivo applicato al rapporto di lavoro.

Il lavoratore impugnava in giudizio il provvedimento, eccependo di essere stato collocato, unitamente a tutti gli altri dipendenti della società datrice di lavoro, in Cassa Integrazione Guadagni Ordinaria con causale Covid-19. La collocazione in cassa, a suo dire,  aveva sostituito ad ogni effetto il periodo di malattia di cui stava fruendo.

A sostegno della propria tesi, il lavoratore richiamava l’art. 3, comma 7, del D.lgs. 148/2015, nonché la Circolare INPS n. 197/2015, secondo al quale “il trattamento di integrazione salariale sostituisce in caso di malattia l’indennità giornaliera di malattia, nonché l’eventuale integrazione contrattualmente prevista”.

La decisione del Tribunale

In primis, il Tribunale di Foggia, richiamando le argomentazioni espresse dal Tribunale di Pesaro con sentenza n. 16/2021, ha sottolineato che con la sopra citata disposizione il legislatore ha inteso esclusivamente prevedere una diversa imputazione della prestazione economica ricevuta dal dipendente in caso di fruizione di un periodo di integrazione salariale. Prestazione che resta, comunque, di competenza dell’INPS, non volendo il legislatore intervenire sulla causale dell’assenza che attiene, invece, al rapporto privato tra lavoratore e datore di lavoro.

Il Giudice ha così voluto evidenziare come tale diversa imputazione non ha alcuna connessione con l’istituto del comporto e con il titolo della sospensione della prestazione lavorativa.

È infatti da escludere, secondo il Tribunale, che il datore di lavoro possa arbitrariamente mutare il titolo dell’assenza del lavoratore quando lo stesso è in malattia. Ciò, si porrebbe in contrasto con un diritto costituzionale, quale il diritto alla salute.

In quest’ottica, il Tribunale ricorda che il mutamento del titolo dell’assenza è consentito solo se è il lavoratore a richiederlo, come ad esempio avviene quando il dipendente sostituisce alla malattia la fruizione delle ferie allo scopo di sospendere il decorso del periodo di comporto.

In questo caso, grava poi sul datore di lavoro accettare o meno tale richiesta e, in caso di rifiuto, dedurre le ragioni organizzative che hanno portato al mancato accoglimento della richiesta. In difetto di prova contraria opera una presunzione di continuità dell’episodio morboso addotto dal dipendente quale causa della sospensione della prestazione lavorativa.

Traslando quanto sopra nel caso di specie, a parare delle Corte, il lavoratore, avendo trasmesso i certificati di malattia in modo continuativo, ha dimostrato, con comportamento concludente, di voler proseguire lo stato di malattia, con conseguente avanzamento del periodo di comporto.

Secondo il Tribunale, a nulla vale la circostanza dedotta in giudizio dal dipendente, secondo cui la società non gli avrebbe mai comunicato il suo collocamento in cassa integrazione CIGO: ciò che si rileva è che il lavoratore abbia continuato ad inoltrare al datore di lavoro i certificati medici attestanti il suo stato di malattia.

Sulla base di tutte le motivazioni sopra citate, il Tribunale di Foggia ha rigettato il  ricorso e compensato le spese di lite.

Ottobre 2021: NOVITA’ E RINNOVI CCNL

  1. CCNL Autostrade e trafori (Concessionari): contratto a tempo parziale

Ai soli lavoratori con contratto a tempo parziale e indeterminato di durata pari a 880 ore annue è data facoltà di chiedere all’azienda di elevare stabilmente a 960 ore la predetta durata minima contrattuale annua della prestazione lavorativa.

Le richieste dei lavoratori interessati, ai sensi del CCNL, possono essere presentate dal 1° ottobre 2021 al successivo 30 novembre, con solo riguardo alle prestazioni lavorative decorrenti dal 1° gennaio 2022.

La prestazione, comprensiva di tale incremento, dovrà essere distribuita su dodici mesi con un minimo di due prestazioni in ciascun mese e su almeno due diverse settimane.

  1. CCNL Dirigenti terziario/Dirigenti autotrasporto/ Dirigenti magazzini generali: assistenza sanitaria integrativa

A decorrere dal mese di ottobre 2021, il contributo di finanziamento al fondo di assistenza sanitaria “Mario Besusso” dovuto dal datore di lavoro è elevato dal 5,50% al 5,51% per ciascun dirigente in servizio. Il contributo è riferito ad una retribuzione convenzionale annua di Euro 45.940,00.

 

  1. CCNL Dirigenti terziario/Dirigenti magazzini generali: formazione

Con decorrenza ottobre 2021 il contributo all’Ente CFMT (Centro di Formazione Management del Terziario) annuo sarà pari ad Euro 290,00 a carico del datore di lavoro e ad Euro 130,00 a carico del dirigente. Gli importi sono comprensivi della quota di contributo sindacale di adesione contrattuale e per l’espletamento delle funzioni aggiuntive attribuite al CFMT in materia di servizi di welfare e politiche attive. In via transitoria, tali contributi saranno versati al fondo di previdenza “Mario Negri” con i criteri, le modalità ed i sistemi previsti per i versamenti di pertinenza del fondo stesso.

 

  1. CCNL Dirigenti terziario/ Dirigenti magazzini generali: previdenza complementare

A decorrere dal mese di ottobre 2021, il contributo di finanziamento al fondo di previdenza complementare “Mario Negri” dovuto dal datore di lavoro è elevato dal 12,35% al 12,86% per ciascun dirigente in servizio.

Dalla medesima data, il contributo a carico del datore di lavoro per la previdenza integrativa individuale (Associazione Antonio Pastore) è determinato in Euro 4.296,45 in ragione d’anno.

 

  1. CCNL Dirigenti imprese autotrasporto: previdenza complementare

A decorrere dal mese di ottobre 2021, il contributo a carico del datore di lavoro in favore del fondo di previdenza complementare stabilito dal CCNL è fissato in Euro 4.296,45 in ragione d’anno. Il contributo dovuto da parte del dirigente è, in ragione d’anno, invece pari a Euro 464,81.

 

  1. CCNL Metalmeccanica (Piccola industria – Confapi): classificazione del personale

Le declaratorie contrattuali prevedono che, a decorrere dal mese di ottobre 2021, i lavoratori inquadrati nella 1° categoria che svolgono “attività produttive semplici per abilitarsi alle quali non occorrono conoscenze professionali, ma è sufficiente un periodo minimo di pratica” dovranno essere inquadrati nella 2° categoria.

 

  1. CCNL Metalmeccanica (Piccola industria – Confimi): contributi contrattuali

Le aziende, mediante affissione in bacheca da effettuarsi a partire dal 1° ottobre 2021 e fino al successivo 30 novembre, comunicano che in occasione del rinnovo del CCNL i sindacati stipulanti Fim e Uilm chiedono ai lavoratori non iscritti una quota associativa straordinaria di 35,00 euro da trattenere sulla retribuzione afferente al mese di dicembre.

Le aziende sono tenuta a distribuire, insieme alle buste paga del mese di ottobre 2021, un apposito modulo che consente ai lavoratori di accettare o rifiutare la richiesta del sindacato e che dovrà essere da questi riconsegnato all’azienda entro il 15 novembre 2021.

 

  1. Aumento dei minimi retributivi dal 1° ottobre 2021

A decorrere dal 1° ottobre 2021 è previsto un aumento dei minimi retributivi tabellari dei seguenti contratti collettivi nazionali di lavoro:

  • CCNL Agenzie immobiliari;
  • CCNL Imprese portuali;
  • CCNL Magazzini generali;
  • CCNL Restauro beni culturali;
  • CCNL Trasporto e spedizione merci (Artigianato);
  • CCNL Trasporto e spedizione merci (Confetra);
  • CCNL Trasporto e spedizione merci (FAI);
  • CCNL Trasporto, facchinaggio (Cooperative).

 

  1. “Una tantum”

Nel mese di ottobre 2021 è prevista l’erogazione di importi a titolo di “una tantum” ai sensi dei seguenti contratti collettivi nazionali di lavoro:

  • CCNL Agricoltura (Impiegati);
  • CCNL Cartai (Industria);
  • CCNL Magazzini generali;
  • CCNL Marittimi;
  • CCNL Pesca marittima (Personale non imbarcato);
  • CCNL Trasporto e spedizione merci (Artigianato);
  • CCNL Trasporto e spedizione merci (Confetra);
  • CCNL Trasporto e spedizione merci (FAI);
  • CCNL Trasporto, facchinaggio (Cooperative);
  • CCNL Lavoro domestico.

Contratto di rioccupazione: l’INPS pubblica le prime indicazioni operative circa lo sgravio contributivo (Andrea Di Nino, Sintesi – Ordine dei Consulenti del Lavoro, agosto 2021)

Con la circolare n. 115 del 2 agosto 2021, l’INPS ha fornito le prime istruzioni operative utili ai datori di lavoro beneficiari dell’esonero contributivo spettante in caso di ricorso al contratto di rioccupazione, introdotto dall’ art. 41 del D.L. 25 maggio 2021, n. 73 convertito con modificazioni dalla L. 23 luglio 2021, n. 10 (c.d. “Decreto Sostegni-bis”). A tale circolare, premette l’Istituto, seguirà un ulteriore provvedimento con cui verranno illustrate le specifiche modalità di richiesta e fruizione dell’agevolazione.

Al riguardo, l’INPS ha inoltre ricordato che, in data 28 giugno 2021, le autorità italiane hanno notificato alla Commissione europea la misura in trattazione e che la medesima Commissione, con la decisione C(2021) 5352 final del 14 luglio 2021, ha autorizzato l’applicabilità dell’esonero in oggetto nei casi e alle condizioni previste dalla citata normativa.

Il contratto di rioccupazione è stato istituito quale contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato, la cui formalizzazione attribuisce al datore di lavoro il diritto a beneficiare, per un periodo massimo di sei mesi, di un esonero contributivo pari al 100% dei contributi previdenziali dovuti a proprio carico, esclusi premi e contributi dovuti all’ INAIL, nel limite massimo di Euro 6.000,00 base annua, riparametrato e applicato su base mensile. Resta ferma l’aliquota di computo delle prestazioni pensionistiche.

Lo sgravio è attivabile da parte di tutti i datori di lavoro del settore privato, con esclusione dei datori di lavoro domestico e agricolo, che effettuino assunzioni a tempo indeterminato con contratto di rioccupazione nel periodo compreso tra il 1° luglio 2021 e il 31 ottobre 2021.

L’istituzione di tale nuova tipologia contrattuale e dello sgravio connesso rispondono, nelle intenzioni del legislatore, all’esigenza di agevolare e promuovere il reinserimento nel mercato del lavoro dei lavoratori in stato di disoccupazione e in previsione della fase di ripresa delle attività dopo l’emergenza epidemiologica.

L’assunzione con il contratto di rioccupazione è subordinata alla definizione, con il consenso del lavoratore, di un progetto individuale di inserimento, finalizzato a garantire l’adeguamento delle competenze professionali del lavoratore stesso al nuovo contesto lavorativo. Il progetto individuale di inserimento ha una durata di sei mesi, nel corso dei quali trovano applicazione le sanzioni previste dalla normativa vigente per il licenziamento illegittimo.

Durante il reinserimento è consentito il solo recesso per giusta causa o giustificato motivo; al termine del progetto, invece, è ammesso il recesso ad nutum, al pari di quanto avviene per il contratto di apprendistato. In assenza, il rapporto di lavoro prosegue come un ordinario rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato. Si noti inoltre, sul punto, che il licenziamento durante o alla fine del periodo di reinserimento comporta la decadenza dal diritto all’esonero contributivo.

In generale, il diritto alla legittima fruizione della misura è subordinato alla sussistenza, alla data dell’assunzione, delle seguenti condizioni:

  • il lavoratore, alla data della nuova assunzione, deve trovarsi in stato di disoccupazione ai sensi dell’articolo 19 del D.Lgs. n. 150/2015;
  • il datore di lavoro non deve avere proceduto, nei sei mesi precedenti l’assunzione, a licenziamenti individuali per giustificato motivo oggettivo, nella medesima unità produttiva in cui avviene l’assunzione;
  • DURC regolare;
  • assenza di gravi violazioni in materia di lavoro e legislazione sociale;
  • rispetto degli accordi e dei contratti collettivi sottoscritti dalle OO.SS. comparativamente più rappresentative.

È, altresì, prevista la decadenza dal beneficio dell’esonero e la restituzione di quanto fruito per i datori di lavoro che procedono:

  • al licenziamento del lavoratore per cui si beneficia dell’agevolazione durante o al termine del periodo di inserimento di cui all’art. 41, comma 3, del Decreto Sostegni-bis;
  • al licenziamento collettivo o individuale per giustificato motivo oggettivo di un lavoratore impiegato nella medesima unità produttiva e inquadrato con lo stesso livello e categoria legale del lavoratore assunto con l’esonero in trattazione, nei sei mesi successivi all’assunzione agevolata.

L’INPS ha inoltre precisato che lo sgravio in argomento gode del beneficio della “portabilità”: pertanto, il lavoratore per il quale è stata già parzialmente fruita l’agevolazione, porterà con sé la medesima misura di esonero per i mesi residui spettanti in caso di nuova assunzione da parte del medesimo o di altro datore di lavoro.

Con specifico riferimento alla possibilità di riconoscere l’agevolazione per il periodo residuo nelle ipotesi di successiva riassunzione del medesimo lavoratore, l’INPS ha ribadito che l’esonero in trattazione può trovare applicazione per le sole assunzioni a tempo indeterminato con contratto di rioccupazione effettuate nel periodo dal 1° luglio 2021 al 31 ottobre 2021.

Inoltre, viene chiarito che, in caso di dimissioni del lavoratore, il beneficio contributivo trova applicazione per il periodo di effettiva durata del rapporto di lavoro.

Circa le possibilità di cumulo con altri benefici contributivi, viene infine confermata la fruibilità “in successione”: pertanto, una volta terminato l’esonero dei 6 mesi del contratto di rioccupazione, sarà possibile per i datori di lavoro beneficiario di un eventuale, ulteriori sgravi contributivi. L’INPS ha chiarito, sul punto, che il periodo di durata massima di tali ultimi esoneri dovrà essere calcolato al netto del periodo di fruizione dell’esonero contributivo legato al contratto di rioccupazione.

Fonte: Sintesi

Agenzia delle Entrate: chiarimenti sul trattamento fiscale delle retribuzioni percepite da lavoratori distaccati in Cina e rientrati in Italia a causa dell’emergenza epidemiologica

Con la risposta ad interpello n. 458/2021, l’Agenzia delle Entrate si è espressa in merito al trattamento fiscale da riservare alle retribuzioni erogate a lavoratori dipendenti distaccati in Cina che, a causa dell’emergenza sanitaria da Covid-19, hanno continuato a svolgere la propria attività lavorativa in modalità agile in Italia.

I fatti oggetto dell’istanza di interpello

La Società istante, in qualità di sostituto di imposta, ha chiesto chiarimenti all’Agenzia delle Entrate circa il corretto trattamento fiscale da applicare ai propri dipendenti originariamente distaccati in Cina e fatti rientrare in Italia, dal gennaio 2020, a causa dell’emergenza epidemiologica da Covid-19. L’istante, nel formulare il proprio interpello, ha precisato che gli stessi hanno continuato a svolgere la propria attività lavorativa in modalità agile (c.d. smartworking) ad esclusivo beneficio della distaccataria cinese.

In particolare, l’istante ha chiesto se:

  1. per i dipendenti che hanno trascorso in Italia meno di 184 giorni durante il 2020 (anno bisestile), la retribuzione percepita per i giorni di lavoro in Italia possa considerarsi come reddito prodotto nel territorio nazionale da soggetti non residenti e, pertanto, da assoggettare ad imposizione fiscale in Italia;
  2. la permanenza in Italia per più di 184 giorni durante il 2020 comporti o meno una modifica nello status di residenza fiscale dei lavoratori coinvolti.

L’istante ha proposto, alla luce delle disposizioni emesse dall’OCSE sul tema con nota del 3 aprile 2020 e successivamente aggiornate il 21 gennaio 2021, di non considerare di fonte italiana il reddito ivi prodotto dai lavoratori, ritenendo di non considerare l’impatto del rientro sulla determinazione della residenza fiscale dei lavoratori. L’OCSE, infatti, ha riconosciuto ad ogni giurisdizione la possibilità di adottare proprie indicazioni per evitare fenomeni di doppia imposizione fiscale durante l’emergenza sanitaria.

L’orientamento dell’Agenzia delle Entrate

Per quanto riguarda il primo punto, l’Agenzia delle Entrate ha precisato che gli orientamenti contenuti nell’analisi svolta dal Segretario dell’OCSE sono stati accolti dall’Italia unicamente sulla base e nei limiti degli accordi amministrativi interpretativi delle disposizioni contenute nelle Convenzioni per evitare le doppie imposizioni fiscali con Austria, Francia e Svizzera. Pertanto, solo in base a detti accordi, il reddito prodotto in un luogo può essere considerato prodotto nel territorio ove la prestazione sarebbe stata svolta in assenza dell’emergenza sanitaria da Covid-19.

L’autorità fiscale ha, quindi, osservato che nel caso di specie è necessario fare riferimento all’Accordo tra il governo della Repubblica italiana e il governo della Repubblica popolare cinese firmato il 31 ottobre del 1986 e ratificato con la L. 376/1989.

In base al combinato disposto dell’art 15 della predetta convenzione Italia – Cina e dell’art. 23 del TUIR, secondo l’Agenzia delle Entrate, i soggetti che abbiano trascorso meno di 183 (184 in anno bisestile) giorni in Italia sono soggetti a tassazione in relazione ai redditi prodotti lavorando sul territorio italiano pur non essendo residenti.

La conseguente doppia imposizione viene risolta, in conformità alle disposizioni presenti nella Convenzione, attraverso il riconoscimento di un credito d’imposta da parte della Cina, Stato di residenza fiscale effettiva dei lavoratori dipendenti.

In merito al secondo quesito l’Agenzia delle Entrate ha ricordato che “ai fini della individuazione della residenza fiscale di un individuo, secondo il diritto interno e in assenza di una disposizione normativa specifica che tenga conto dell’emergenza COVID, occorre far riferimento ai criteri indicati nell’articolo 2 del Tuir, la cui applicazione prescinde dalla circostanza che una eventuale permanenza della persona fisica nel nostro Paese sia dettata da motivi legati alla pandemia. Infatti, ai sensi dell’articolo 2, comma 2, del Tuir si considerano residenti le persone che per la maggior parte del periodo d’imposta sono iscritte nelle anagrafi della popolazione residente o hanno nel territorio dello Stato il domicilio o la residenza ai sensi del codice civile”.

L’Agenzia, sul punto, ha confermato la necessità di tenere in considerazione non solo i giorni di presenza fisica in Italia ma anche le condizioni previste dal trattato sottoscritto con la Cina. Quest’ultimo enumera infatti, al paragrafo 2, le cosiddette “tie breaker rules” per dirimere eventuali conflitti di residenza tra gli Stati contraenti. Dette regole fanno prevalere il criterio dell’”abitazione permanente” cui seguono, in ordine gerarchico, il centro degli interessi vitali, il soggiorno abituale e la nazionalità.

In considerazione di tutto quanto sopra esposto, l’Agenzia delle Entrate ha convenuto che ai fini della individuazione della residenza fiscale di un lavoratore che svolge la propria attività lavorativa in smart working a seguito del rientro in Italia dal luogo ove era distaccato, salvo apposite disposizioni previste negli accordi bilaterali ad hoc, occorre far riferimento ai criteri indicati nell’articolo 2 del TUIR senza tener conto dell’impatto della pandemia da Covid-19.

Brexit: nuove precisazioni dall’INPS

A seguito del recesso del Regno Unito e dell’Irlanda del Nord dall’Unione Europea e in applicazione dell’accordo sugli scambi commerciali e la cooperazione (TCA) e del Protocollo sul coordinamento della sicurezza sociale (PSSC) in esso contenuto, l’INPS, con la circolare n. 98 datata 8 luglio 2021, ha fornito le istruzioni operative in merito agli ammortizzatori sociali e alle modalità di scambio di informazioni tra istituzioni previdenziali.

Sono stati fornite, inoltre, precisazioni sull’applicabilità dell’Accordo di recesso (WA) di cui alla circolare INPS n. 16 del 4 febbraio 2020.

L’evoluzione della normativa

La circolare in argomento ripercorre lo sviluppo della complessa situazione normativa attinente al tema, da ultimo descritta dall’Istituto con la circolare n. 53 del 6 aprile 2021.

Come noto, il recesso del Regno Unito dall’Unione Europea è stato realizzato in una prima fase da un accordo, detto Accordo di Recesso (Withdrawal Agreement o “WA)”, stipulato in data 24 gennaio 2020 ed entrato in vigore il successivo 1° febbraio.

Il WA ha disposto la vigenza di un periodo di transizione durante il quale il diritto dell’Unione Europea in materia di sicurezza sociale ha continuato a trovare applicazione nei confronti del Regno Unito. I tratti normativi e operativi di tale periodo transitorio, terminato il 31 dicembre 2020, sono stati descritti dall’INPS nella circolare n. 16 del 4 febbraio 2020.

Terminato il periodo di transizione, le parti hanno, in data 24 dicembre 2020, stipulato un accordo sugli scambi commerciali e la cooperazione (Trade and Cooperation Agreement o “TCA”) integrato dal Protocollo sul coordinamento della sicurezza sociale (Protocol on social security coordination o “PSSC”).

Ad ogni modo, sul punto, giova osservare come – ad integrazione di quanto indicato nella circolare n. 16/2020 – l’INPS abbia precisato che “il WA continua a tutelare i soggetti che rientrano nel suo campo di applicazione, anche dopo il 31 dicembre 2020. In particolare, il WA continua ad applicarsi ai cittadini dell’Unione europea residenti nel Regno Unito entro il 31 dicembre 2020 e ai cittadini britannici residenti in uno Stato membro entro la medesima data. Di conseguenza, il TCA e il PSSC, che di esso fa parte, si applicano di regola a fattispecie non coperte dal WA”.

Il TCA costituisce, dunque, la base giuridica su cui si fonderanno i futuri rapporti di collaborazione tra l’Unione Europea, il Regno Unito e l’Irlanda del Nord, una volta esauriti gli effetti giuridici del WA.

Il Protocollo sul coordinamento della sicurezza sociale (“PSSC”)

in merito al tema della sicurezza sociale trova rilievo applicativo il PSSC. Sul punto, l’INPS ricorda innanzitutto che, come già indicato nella citata circolare n. 53/2021, le disposizioni in materia di totalizzazione internazionale per l’accertamento del diritto e il calcolo delle prestazioni, continuano a trovare attuazione nelle materie a cui si estende il campo di applicazione del Protocollo, ai sensi dell’articolo SSC.7, rubricato “Totalizzazione dei periodi”.

Tale applicazione avviene anche con riferimento a “periodi assicurativi, fatti o situazioni successivi alla data del 31 dicembre 2020”.

La circolare in esame chiarisce, altresì che, con riferimento alle prestazioni di malattia e maternità/paternità, la menzionata totalizzazione dei periodi assicurativi maturati nel Regno Unito e in Italia resta possibile a conferma delle disposizioni specifiche del Titolo III del regolamento CE 883/2004.

In merito alle prestazioni familiari, infine, viene precisato che il PSCC non include le stesse nel proprio campo di applicazione. In riferimento a tali prestazioni, pertanto, nei rapporti tra Italia e Regno Unito troverà applicazione quanto previsto dall’articolo 2, comma 6-bis, del decreto-legge 13 marzo 1988, n. 69, convertito in legge 13 maggio 1988, n. 153, in relazione ai Paesi terzi che non hanno stipulato con l’Italia convenzioni o Accordi bilaterali in materia di prestazioni familiari.

INL: riattivazione delle procedure conciliative per i licenziamenti per giustificato motivo oggettivo

Con la nota n. 5186 dello scorso 16 luglio, l’Ispettorato Nazionale del Lavoro (“INL”) ha fornito indicazioni operative circa la riattivazione delle procedure di conciliazione attinenti ai licenziamenti individuali per giustificato motivo oggettivo, in merito alle quali ha acquisito parere dell’Ufficio legislativo del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali.

Riferimenti normativi

Fin dalla fase più acuta del periodo pandemico, il legislatore, con diversi interventi normativi, ha inteso arginare il ricorso ai licenziamenti collettivi ed individuali per giustificato motivo oggettivo, sospendendo anche le procedure già avviate al momento dell’entrata in vigore delle disposizioni normative restrittive.

Attualmente, la disciplina del c.d. divieto di licenziamento si ricava dalla lettura delle disposizioni degli ultimi decreti-legge emanati, tra cui il D.L. n. 41/2021, il D.L. n. 73/2021 e, infine, il D.L. n. 99/2021.

In particolare, l’art. 8, comma 9, del D.L. n. 41/2021 ha previsto il blocco dei licenziamenti collettivi e individuali per giustificato motivo oggettivo fino al 30 giugno 2021, con contestuale sospensione delle procedure di cui all’art. 7 della L. n. 604/1966.

Il successivo comma 10 del medesimo articolo, ha precluso alle imprese aventi diritto all’assegno ordinario e alla cassa integrazione salariale in deroga, fino al 31 ottobre 2021, la facoltà di licenziare per giustificato motivo oggettivo ai sensi dell’art. 3 della L. n. 604/1966, inibendo altresì le procedure in corso di cui all’art. 7 della medesima legge.

Il termine del 31 ottobre è stato fissato anche per le imprese del settore del turismo, degli stabilimenti balneari e del settore commercio.

Tuttavia, l’art. 43 del D.L. n. 73/2021 ha introdotto un’ulteriore eccezione prevedendo il divieto di licenziamento, fino al 31 dicembre 2021, in caso di richiesta dell’esonero contributivo da fruirsi entro tale data.

È opportuno evidenziare come, in tali circostanze, il divieto di licenziamento sia collegato alla domanda di integrazione salariale e quindi al periodo di trattamento autorizzato e non a quello effettivamente fruito. In aggiunta, i datori di lavoro non saranno soggetti al versamento del contributo addizionale all’INPS.

Inoltre, l’INL illustra come, a decorrere dal 1° luglio 2021, ai sensi dell’art. 8, comma 1, del D.L. n. 41/2021, il divieto di licenziamento sia venuto meno solo per le aziende che possono fruire della CIGO, ovverosia per tutti i datori di lavoro operanti nel settore industriale e manifatturiero.

I successivi interventi normativi di cui al D.L. n. 73/2021 e al D.L. n. 99/2021 hanno esteso, a determinate condizioni, il divieto di licenziamento oltre il 30 giugno 2021.

In particolare, per le aziende del settore tessile identificate, secondo la classificazione Ateco2007, con i codici 13, 14 e 15 (confezioni di articoli di abbigliamento e di articoli in pelle e in pelliccia e delle fabbricazioni di articoli in pelle e simili), il divieto di licenziamento è stato esteso sino al 31 ottobre 2021 (art. 4, comma 2, D.L. n. 99/2021) in virtù della possibilità di accedere ad ulteriore periodo di cassa integrazione di 17 settimane dal 1° luglio al 31 dicembre 2021.

Giova, sul punto, ricordare che il divieto opera a prescindere dalla effettiva fruizione degli strumenti di integrazione salariale.

In aggiunta, per le altre aziende rientranti nell’ambito di applicazione della CIGO, la possibilità di licenziare è inibita ai sensi degli art. 40, commi 4 e 5, e 40 bis, commi 2 e 3, del D.L. n. 73/2021 ai datori di lavoro che abbiano presentato domanda di fruizione degli strumenti di integrazione salariale e per tutta la durata degli stessi.

L’INL ricorda, infine, che l’articolo 40, comma 1, ha previsto la possibilità di stipulare un contratto di solidarietà in deroga al quale il legislatore non ha espressamente connesso la prosecuzione del divieto di licenziamento: in tali casistiche occorre considerare la finalità difensiva propria del contratto di solidarietà, volto ad evitare esuberi e licenziamenti del personale.

I chiarimenti dell’INL

Dal 1° luglio 2021 le aziende che non usufruiscono degli ammortizzatori sociali e per le quali non vige l’obbligo del divieto di licenziamento fino al 31 ottobre 2021 possono attivare le procedure di conciliazione per le casistiche di licenziamento per giustificato motivo oggettivo.

L’INL illustra come l’istanza debba essere presentata con il nuovo modello messo a disposizione sul proprio sito web. In tale nuovo modello sono presenti ulteriori informazioni che le parti dovranno fornire alla Commissione di Conciliazione al fine di verificare la possibilità di ricorrere alla procedura conciliativa. Per lo stesso motivo, i datori di lavoro che avevano in corso le procedure di conciliazione al momento dell’entrata in vigore del D.L. n. 18/2020 dovranno reiterare l’istanza utilizzando il medesimo modello.

Infine, l’eventuale presentazione di una domanda di cassa integrazione successiva alla definizione delle procedure ex art. 7 della L. n. 604/1966, sarà valutata ai fini della programmazione delle attività di vigilanza connesse alla fruizione degli ammortizzatori sociali.

E’ illegittimo demansionare una lavoratrice al rientro dalla maternità

La Corte di Cassazione, con ordinanza n. 20253 del 15 luglio 2021, ha dichiarato illegittimo adibire una lavoratrice, rientrata dalla maternità, a mansioni inferiori rispetto a quelle svolte prima del congedo.

I fatti di causa

Una lavoratrice adiva l’autorità giudiziaria affinché la società propria datrice di lavoro venisse condannata al pagamento delle differenze retributive e del risarcimento del danno per essere stata adibita, al rientro dalla maternità, a mansioni inferiori rispetto a quelle svolte in precedenza.

La Corte d’Appello territorialmente competente accoglieva la domanda della lavoratrice, escludendo però la natura discriminatoria del comportamento datoriale per difetto di prova.

Avverso la decisione di merito, la società datrice di lavoro proponeva ricorso in cassazione a cui resisteva la lavoratrice con controricorso recante ricorso incidentale a cui replicava la prima con controricorso.

La decisione della Corte di Cassazione

La Corte di Cassazione ha, innanzitutto, ribadito che il divieto di demansionamento di cui all’art. 2103 cod. civ. esclude che al dipendente “possano essere affidate, anche se soltanto secondo un criterio di equivalenza formale, mansioni sostanzialmente inferiori a quelle in precedenza disimpegnate, dovendo il giudice di merito accertare se le nuove mansioni siano o aderenti alla competenza professionale specifica del dipendente, salvaguardandone il livello professionale acquisito e garantiscano al contempo lo svolgimento e l’accrescimento delle sue capacità professionali”. E nel caso di specie, secondo la Corte di Cassazione, i giudici di merito hanno accertato il demansionamento della lavoratrice nella concretezza delle mansioni svolte prima e dopo la sua assenza per maternità così come emerso dalle risultanze istruttorie.

Peraltro, secondo la Cassazione, non può essere accolta la tesi datoriale per la quale il demansionamento era collegato ad una generica ragione organizzativa. Infatti, se un lavoratore lamenta un inesatto adempimento dell’obbligo gravante sul datore di lavoro ai sensi dell’art. 2103 cod. civ., è proprio su di esso che grava l’onere di provarne l’esatto adempimento “o attraverso la prova della mancanza in concreto della demansionamento ovvero attraverso la prova della sua giustificazione per il legittimo esercizio dei poteri imprenditoriali o disciplinari (…) oppure, in base all’art. 1218 cod. civ., per impossibilità della prestazione derivante da causa a sé non imputabile ”.

In considerazione di tutto quanto sopra esposto, la Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso e condannato la società al risarcimento del danno per il demansionamento subito dalla lavoratrice al rientro dalla maternità.

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