A far data dal 1° settembre 2021, in caso di assunzione di personale a tempo parziale, i datori di lavoro sono tenuti a darne tempestiva informazione al personale già dipendente con rapporto a tempo pieno occupato in unità produttive site nello stesso ambito comunale.
A tale proposito, i datori di lavoro dovranno a prendere in considerazione le eventuali domande di trasformazione a tempo parziale nei limiti del:
Il rifiuto del lavoratore di trasformare il proprio rapporto di lavoro a tempo a tempo parziale, o viceversa, non costituisce giustificato motivo di licenziamento.
Nel mese di settembre 2021 i datori di lavoro dovranno eseguire una trattenuta netta sulla retribuzione dei lavoratori dipendenti impiegati a titolo di servizio sindacale contrattuale. La trattenuta ammonta ad Euro 35,00.
Dal 1° settembre 2021 le aziende saranno tenute a mettere a disposizione dei lavoratori strumenti di welfare del valore di Euro 150,00, elevato ad Euro 200,00 a decorrere dall’anno 2022.
L’attribuzione dei benefit in argomento sarà ripetuta annualmente con decorrenza dal 1° settembre di ciascuno anno e l’utilizzo degli stessi dovrà avvenire entro il 31 agosto di ogni anno successivo.
Eccezion fatta per i dipendenti che hanno espresso opportuno diniego, entro il 30 settembre 2021 i datori di lavoro dovranno versare alle sigle sindacali le somme raccolte a titolo di contributo contrattuale.
Nel mese di settembre 2021 è prevista l’erogazione di importi a titolo di “una tantum” ai sensi dei seguenti contratti collettivi nazionali di lavoro:
A decorrere dal 1° settembre 2021 è previsto un aumento dei minimi retributivi tabellari dei seguenti contratti collettivi nazionali di lavoro:
Con la circolare n. 87/2021, l’INPS ha fornito chiarimenti circa lo sgravio contributivo totale previsto per i contratti di apprendistato di primo livello stipulati nel biennio 2020-2021 in favore dei datori di lavoro che occupano alle proprie dipendenze un numero di addetti pari o inferiore a nove.
Prima di analizzare le disposizioni contenute nella circolare si fornisce una breve disamina di questa tipologia contrattuale e delle particolarità ad essa connesse.
L’apprendistato per la qualifica e il diploma professionale, il diploma di istruzione secondaria superiore e il certificato di specializzazione tecnica superiore (c.d. “apprendistato di primo livello”) ha l’obiettivo di integrare, in un sistema duale, l’attività lavorativa e la formazione nel quadro dei titoli di istruzione e formazione e del sistema delle qualificazioni professionali.
Tale tipologia di apprendistato, atto a garantire un maggior raccordo tra scuola e mondo del lavoro, può essere stipulato dai datori di lavoro di tutti i settori di attività, sia pubblici che privati, con soggetti giovani di età compresa tra i 15 e i 25 anni.
La durata del contratto, secondo le disposizioni dell’art. 43 del D. Lgs. 81/2015, è determinata in base alla qualifica o al titolo di studi da conseguire e non può essere superiore a tre anni (ovvero 4 anni in caso di diploma professionale quadriennale).
Tuttavia, il predetto articolo al comma 4 prevede alcuni casi in cui la durata del contratto può essere prorogato di un ulteriore anno, ossia per:
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In merito al trattamento retributivo del tempo utile al lavoratore per le operazioni di vestizioni e di svestizione (c.d. “tempo tuta”), si è più volte pronunciata la giurisprudenza.
Sul tema, occorre anzitutto evidenziare come l’articolo 1, comma 2, del D.Lgs. 66/2003 definisca l’orario di lavoro come “qualsiasi periodo in cui il lavoratore sia al lavoro, a disposizione del datore di lavoro e nell’esercizio della sua attività o delle sue funzioni”.
Proprio partendo da questa definizione, la giurisprudenza ha espresso orientamenti diversi a seconda che il “tempo tuta” fosse inteso come meramente propedeutico alla prestazione di lavoro oppure come parte integrante della stessa.
Di recente la Corte di Cassazione è tornata a pronunciarsi con la sentenza n. 15763 del 7 giugno 2021 negando ai lavoratori interessati il diritto a vedersi riconosciuta la retribuzione del “tempo tuta”. Ciò in quanto nel rapporto di lavoro subordinato il tempo necessario ad indossare l’abbigliamento di servizio costituisce tempo di lavoro “soltanto ove qualificato da eterodirezione“. In assenza di detto requisito, sempre secondo la Cassazione, l’attività utile alla vestizione rientra “nella diligenza preparatoria inclusa nell’obbligazione principale del lavoro“, non dando titolo ad alcun corrispettivo autonomo.
Nel caso in questione, infatti, è stato accertato che i lavoratori non erano tenuti ad indossare gli abiti da lavoro presso i locali aziendali, bensì erano liberi di recarsi al lavoro e far ritorno a casa indossandoli. I servizi di spogliatoio, doccia e lavanderia offerti dal datore di lavoro costituivano delle mere agevolazioni riconosciute ai dipendenti per le relative necessità, senza alcun obbligo aziendale di ricorrere agli stessi, se non su base volontaria e individuale.
La stessa Corte di Cassazione, in un’altra pronuncia, ha, invece, considerato le operazioni di vestizioni come rientranti nella fase preparatoria, strettamente funzionale alla prestazione dei lavoratori, ed in quanto tali da retribuire essendo effettivamente eterodirette (sentenza n. 19358 del 10 settembre 2010). I lavoratori, in questo caso, dovevano rispettare una precisa procedura prima dell’inizio dell’attività lavorativa; nello specifico questi erano tenuti a:
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La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 11644 del 4 maggio 2021, ha affermato che è legittimo il licenziamento del lavoratore che, in possesso di autovettura aziendale, cerchi di “mascherare la realtà, denunciando un falso sinistro” a seguito dell’illegittimo utilizzo della stessa.
I fatti vedono, nel concreto, il dirigente medico di un’azienda unità sanitaria locale (“AUSL”) dissimulare un sinistro, avvenuto la sera dell’11 gennaio 2017, alla guida della propria auto aziendale, con lo scopo di occultare l’uso improprio della stessa, dichiarando nella denuncia aziendale che esso era avvenuto la mattina seguente, in circostanze differenti, quando egli aveva effettivamente necessità del mezzo per ragioni servizio.
Ciò costituiva, tra le altre, ulteriori violazioni alle norme interne all’azienda in merito all’utilizzo dei veicoli aziendali, come l’esclusività rispetto ai compiti d’ufficio, il divieto di detenere l’auto presso la propria abitazione privata, l’obbligo di compilare il libretto di marcia, etc.
A seguito di tale condotta, il datore di lavoro operava un recesso in tronco, motivato non tanto dall’utilizzo con modalità irregolari del mezzo aziendale, quanto nell’avere il dipendente tenuto l’azienda all’oscuro dei fatti attinenti all’incidente, cercando di mascherare la realtà mediante la denuncia di un falso sinistro.
Sul punto, la Corte territoriale ha ritenuto che fosse indubbio che l’unico incidente che aveva coinvolto il lavoratore fosse quello della sera dell’11 gennaio, essendo inverosimile che potessero essersi verificati due sinistri sullo stesso mezzo ad appena dodici ore di distanza. Tale eventualità era stata, inoltre, smentita dall’istruttoria.
A seguito del ricorso operato dal lavoratore avverso la sentenza di secondo grado, la Cassazione – nella disamina dei fatti analizzati nei primi due gradi di giudizio – ha osservato, anzitutto, come l’affermazione “inverosimile” utilizzata dalla Corte di Appello abbia due ordini di lettura: in particolare, detta corte potrebbe aver sostenuto che non fosse possibile il verificarsi dei due incidenti, oppure che non fosse probabile che ciò fosse accaduto.
“Poiché è palese che una tale impossibilità non è predicabile” – ha osservato la Suprema Corte – “è evidente che la lettura della motivazione debba essere l’altra, ovverosia che la Corte ha ritenuto poco probabile che il lavoratore avesse fatto due incidenti con lo stesso mezzo a distanza ravvicinata di tempo“.
Tale costruzione probabilistica, per quanto sintetica e contratta, non può comunque dirsi illogica, pertanto “va da sé che non vi sia stata violazione delle regole sull’onere probatorio, avendo in sostanza la Corte ritenuto provato che l’incidente fosse stato solo uno e solo quello, pacificamente verificatosi, del giorno precedente“.
In merito all’avvenuto licenziamento, la Corte territoriale ha ritenuto che l’illecito non fosse da riportare alle ipotesi del codice disciplinare applicato riferite al mero “occultamento da parte del dirigente di fatti e circostanze relativi ad illecito uso, manomissione, distrazione o sottrazione di somme o beni di pertinenza dell’amministrazione o ad esso affidati“, bensì alla più grave fattispecie che contempla l’ipotesi di “atti e comportamenti […] seppure estranei alla prestazione lavorativa, posti in essere anche nei confronti del terzo, di gravità tale da non consentire la prosecuzione neppure temporanea del rapporto di lavoro ai sensi dell’art. 2119 c.c.“.
La Suprema Corte ha osservato come, d’altra parte, una cosa sia “il mero occultamento di un danno al mezzo“, mentre “altra e più grave cosa è l’avere cercato di mascherare la realtà, denunciando un falso sinistro“.
Su tale ricostruzione fattuale – a dire dei giudici della Cassazione – la Corte territoriale ha incentrato la propria valutazione di gravità e di proporzionalità dell’accaduto rispetto alla sanzione applicata dall’azienda: il comportamento del lavoratore è stato, in concreto, idoneo a ledere il nesso fiduciario.
La Corte di Cassazione ha quindi rigettato il ricorso presentato dal lavoratore, condannandolo al pagamento delle spese di rito.
Fonte: Sintesi
La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 11430/2021, ha statuito che, ai sensi dell’art. 2 della Legge 335/1995, i soggetti titolari di rapporti di collaborazione coordinata e continuativa sono i soggetti passivi dell’obbligazione contributiva nei confronti della Gestione Separata INPS. A nulla rileva, infatti, che l’art. 1 del D.M. 281/1996 ponga anche a carico dei committenti, nella misura dei due terzi, l’obbligo di versamento dei contributi, trattandosi soltanto di una forma di delegazione legale di pagamento, diretta a semplificare la riscossione.
Pertanto, per i “co.co.co.” il rapporto previdenziale è assimilabile a quello previsto per i lavoratori autonomi iscritti alla Gestione Separata INPS, con conseguente inapplicabilità del principio dell’automaticità delle prestazioni di cui all’art. 2116, comma 1, cod. civ.
I fatti di causa
Una collaboratrice coordinata a progetto ricorreva in giudizio affinché l’INPS venisse condannato al pagamento in suo favore dell’indennità di fine rapporto prevista dall’art. 19 del D.L. 185/2008 (conv. nella Legge 2/2009), per i collaboratori in regime di c.d. monocommittenza (indennità, oggi, definitivamente sostituita dalla c.d. Dis-Coll introdotta dall’art. 15 D.Lgs. 22/2015).
La Corte d’Appello territorialmente competente, confermando la sentenza di primo grado, riteneva che la collaboratrice, iscritta alla Gestione Separata INPS, avesse diritto alla suddetta indennità sebbene il proprio committente avesse omesso il versamento dei contributi di legge. Ciò in virtù dell’applicazione del principio dell’automaticità delle prestazioni previdenziali previsto dall’art. 2116, comma 1, cod. civ.
Avverso la sentenza di merito l’INPS ricorreva in cassazione affidandosi ad un unico motivo di ricorso.
La decisione della Corte di Cassazione
La Corte di Cassazione adita ha ritenuto errata l’interpretazione fornita dai giudici di merito, rilevando che, come chiarito in precedenti pronunce di legittimità, esclusivamente nel caso del rapporto di lavoro subordinato il titolare dell’obbligazione contributiva nei confronti dell’INPS è sempre il datore di lavoro, con conseguente applicazione del principio dell’automaticità delle prestazioni.
Tale principio, infatti, in difetto di specifiche disposizioni di legge o di una legittima fonte secondaria in senso contrario, non può trovare applicazione nel rapporto tra lavoratore autonomo ed ente previdenziale, “in cui invece il mancato versamento dei contributi obbligatori impedisce di regola la stessa costituzione del rapporto previdenziale e comunque la maturazione del diritto alle prestazioni, […] dal momento che nel rapporto tra lavoratore autonomo ed ente previdenziale l’obbligazione contributiva grava sullo stesso lavoratore al quale compete il diritto alle prestazioni, il quale, coerentemente, non può che subire le conseguenze pregiudizievoli del proprio inadempimento”
Al riguardo, è la stessa Legge 335/1995, all’art. 2, a prevedere per i lavoratori titolari di rapporti di collaborazione coordinata e continuativa:
Secondo la Corte di Cassazione, quanto previsto dalle richiamate disposizioni di legge equivale a dire che i lavoratori iscritti alla Gestione Separata INPS restano personalmente obbligati al versamento dei contributi, quantomeno nella misura di un terzo della loro misura complessiva.
Il committente risulta, dunque, un mero delegato al pagamento dei contributi, rimanendo il collaboratore coordinatore e continuativo l’unico vero titolare dell’obbligazione contributiva.
La Corte di Cassazione ha, altresì, stabilito che – in ipotesi di omissione contributiva da parte del committente – il collaboratore dovrebbe, entro i termini di prescrizione, dichiarare all’INPS di (i) rinunciare all’effetto privativo dell’accollo ex lege disposto in suo favore dall’art. 2, comma 30, della Legge 335/1995 e (i) assumere in proprio il debito relativo alla parte dei contributi accollata al committente, salvo poi agire nei confronti di quest’ultimo per il risarcimento dei danni subiti.
In conclusione, la pronuncia in argomento ha stabilito che “anche per i soggetti titolari di rapporti di collaborazione coordinata e continuativa iscritti alla Gestione separata INPS il rapporto contributivo e previdenziale si atteggi (ndr si atteggia), con le precisazioni dianzi esposte, come quello degli altri lavoratori autonomi iscritti alla medesima Gestione, con conseguente inapplicabilità del principio di automaticità delle prestazioni”.
Ai sensi della Legge n. 68/1999 i datori di lavoro che occupano almeno 15 dipendenti sono obbligati ad assumere un numero di soggetti disabili che varia in base al numero e alla categoria di appartenenza dei lavoratori occupati.
I datori di lavoro hanno a disposizione numerosi strumenti per adempiere all’obbligo in esame, tra i quali si annoverano (i) l’assunzione nominativa del soggetto disabile, (ii) la richiesta di assunzione numerica effettuata al centro di collocamento mirato, (iii) la richiesta di esonero parziale dietro versamento di una somma al Fondo regionale per l’occupazione degli invalidi e (iv) la richiesta di convenzioni che permettono di assolvere all’obbligo in modo graduale e programmato.
La mancata copertura dell’obbligo e la diffida obbligatoria
Nel caso di mancata copertura della quota d’obbligo, la Legge 68/1999, all’art. 15, prevede che “trascorsi sessanta giorni dalla data in cui insorge l’obbligo di assumere soggetti appartenenti alle categorie di cui all’articolo 1, per ogni giorno lavorativo durante il quale risulti non coperta, per cause imputabili al datore di lavoro, la quota dell’obbligo di cui all’articolo 3, il datore di lavoro stesso è tenuto al versamento, a titolo di sanzione amministrativa, al Fondo di cui all’articolo 14, di una somma parti a cinque volte la misura del contributo esonerativo di cui all’art. 5, comma 3-bis al giorno per ciascun lavoratore disabile che non risulta occupato nella medesima giornata”.
Il Jobs Act (D. Lgs. n. 185/2016) ha introdotto al citato art. 15 il comma 4 bis) che prevede l’applicazione della diffida obbligatoria ex art. 13 del D. Lgs. n. 124/2004 nel caso di violazione degli obblighi di cui alla Legge n. 68/99. L’oggetto della diffida deve consistere nella presentazione agli uffici competenti della richiesta di assunzione o nella stipula del contratto di lavoro con la persona disabile avviata dagli uffici.
L’applicazione della sanzione in “misura minima”
Pertanto, per essere obbligato a pagare la sanzione, il datore di lavoro:
In merito alla sanzione in misura minima, l’Ispettorato Nazionale del Lavoro (l’“INL”), con nota n. 6316 del 18 luglio 2018, ha evidenziato che essa deve essere applicata “a partire dal 61° giorno successivo a quello in cui è maturato l’obbligo senza che sia stata presentata la richiesta di assunzione agli uffici competenti a norma dell’art. 9, comma 1, ovvero dal giorno successivo a quello in cui il datore, pur avendo ottemperato nei termini all’obbligo di richiesta, non abbia proceduto all’assunzione del lavoratore regolarmente avviato dai nuovi Servizi per l’impego”.
Sempre l’INL, con la nota n. 966 del 17 giugno 2021, riprendendo la propria del 23 marzo 2017 (n. 2283), ha ribadito che è possibile adempiere alla diffida unicamente con “la presentazione, sia pure tardiva, della richiesta di assunzione numerica, ovvero la stipula di un contratto di lavoro”.
L’INL sottolinea che il datore di lavoro non è ammesso al pagamento della sanzione in misura minima nel caso in cui, rispetto ad “un’accertata scopertura verificatasi nel tempo, venga meno l’obbligo di assunzione per effetto di una riduzione dell’organico aziendale”. In tale caso, infatti, la violazione agli obblighi non sarà oggetto di diffida in quanto il venir meno dell’obbligo di assunzione non è conseguenza, seppur tardiva, di un’iniziativa del datore di lavoro ma è una mera conseguenza di una riduzione della c.d. base di computo.
Nel predetto caso, pertanto, al datore di lavoro verrà contestata la sanzione amministrativa pervista dall’art. 15 della L. 68/1999 in ragione del numero di giornate lavorative intercorrenti dalla scadenza dei 60 giorni previsti per adempiere agli obblighi sino al momento in cui gli stessi decadono per effetto della riduzione dell’organico aziendale.
Con la risposta ad interpello n. 449/2021, l’Agenzia delle Entrate si è espressa in merito ai doveri quale sostituto d’imposta in capo ad un ente estero senza una stabile organizzazione in Italia.
Nella risposta ad interpello hanno assunto rilievo elementi come l’effettiva presenza, in Italia, di una stabile organizzazione o base fissa di tale entità, nonché l’eventuale ricorso agli istituti del rappresentante fiscale e dell’identificazione diretta da parte della stessa.
I fatti oggetto dell’istanza di interpello
Il soggetto istante è un’organizzazione che, nel 2020, giungeva in Italia per lo svolgimento delle attività economiche legate al proprio business.
Allo scopo di dare inizio, nel più breve tempo possibile, alle proprie attività, l’organizzazione ingaggiava, con contratto di prestazione occasionale, circa trenta persone remunerate attraverso un conto corrente aperto, presso una filiale bancaria, da un funzionario della società stessa. In particolare, l’istante ha rappresentato di aver erogato corrispettivi netti concordati che, nella maggior parte dei casi, non hanno superato l’importo di 5.000 Euro.
L’ente estero non sapeva di dover nominare un soggetto come rappresentante fiscale in Italia. Premessa, dunque, la volontà di provvedere direttamente al pagamento di ogni eventuale imposta relativa alle prestazioni erogate dai prestatori d’opera, nell’intento di sanare ogni eventuale pendenza, l’istante ha chiesto all’Agenzia delle Entrate istruzioni utili per assolvere agli adempimenti fiscali previsti dalla normativa italiana.
La nomina del rappresentante fiscale e l’identificazione diretta sul territorio italiano
La società istante ha dapprima prospettato di voler nominare, retroattivamente, “un rappresentante fiscale in Italia (art. 17 D.P.R. 633/72) identificato dal medesimo soggetto che ha provveduto all’apertura del conto corrente bancario, persona fisica di nazionalità extra-Ue dotata di codice fiscale italiano ma non residente sul territorio ovvero attribuire tale carica ad altro soggetto residente sul territorio”.
Come alternativa alla nomina del rappresentante fiscale, la società ha individuato la necessità di “identificarsi direttamente sul territorio italiano mediante la richiesta di codice fiscale come da Modello AA5/6, soggetto non residente […] con domicilio fiscale nella città di […] ove ha svolto […], con la qualifica di sostituto di imposta […] limitatamente ai redditi corrisposti da una loro stabile organizzazione o base fissa in Italia“.
Inoltre, la società istante ha reso noto di avere pianificato, per il 2021, l’impiego di un dipendente in Italia: ha, pertanto, chiesto se l’identificativo fiscale ottenuto in base ad una delle due alternative sopra citate fosse o meno sufficiente per agire come sostituto di imposta, consentendo l’ordinato e corretto svolgimento della operatività dal punto di vista fiscale.
Le conclusioni dell’Agenzia delle Entrate
Alla luce dei chiarimenti illustrati, l’autorità fiscale ha evidenziato, preliminarmente, che l’istante non sembra svolgere alcuna attività rilevante ai fini IVA in Italia, risultando, quindi, inconferente il richiamo all’art. 17 del DPR 26 ottobre 1972, n. 633 (c.d. “Decreto IVA”) e, in particolare, agli istituti del rappresentante fiscale (terzo comma del citato art. 17) e dell’identificazione diretta (art. 35-ter del medesimo Decreto).
Sul punto, l’autorità fiscale ha ricordato che i soggetti extra-Ue che intendono porre in essere in Italia operazioni rilevanti ai fini IVA, qualora privi di stabile organizzazione, per assolvere gli obblighi ed esercitare i diritti derivanti dall’applicazione di tale tributo, possono identificarsi direttamente ex art. 35-ter del Decreto IVA solo “se esercitano una attività di impresa, arte o professione in un Paese terzo con il quale esistano strumenti giuridici che disciplinano la reciproca assistenza in materia di imposizione indiretta”. Diversamente, devono nominare un rappresentante fiscale residente nel territorio dello Stato.
Nel caso di specie, dunque, ove fosse necessario acquisire una posizione IVA in Italia, il rappresentante fiscale non potrebbe essere individuato nel soggetto che ha provveduto all’apertura del conto corrente bancario in Italia, trattandosi di una persona fisica non residente in Italia, come riferito dall’istante.
Inoltre, secondo l’Agenzia delle Entrate, i compensi erogati alle circa trenta persone ingaggiate con contratto di “prestazione occasionale”, costituiscono redditi di lavoro autonomo occasionale per i percipienti, fiscalmente rilevanti ai sensi dell’articolo 67, comma 1, lett. l), del TUIR.
Il requisito della stabile organizzazione
Ai fini dell’effettuazione delle ritenute fiscali da operare su detti compensi, viene chiarito, dunque, che possono essere sostituti di imposta anche i soggetti non residenti nel territorio dello Stato, limitatamente ai redditi corrisposti da una loro stabile organizzazione o base fissa in Italia. In assenza di tale requisito, infatti, l’obbligo sopra richiamato non ricorre.
Pertanto, “solo laddove l’entità estera abbia istituito in Italia una stabile organizzazione ovvero una base fissa, questa sarà tenuta a richiedere il codice fiscale e ad adempiere ai conseguenti obblighi in qualità di sostituto d’imposta”, consistenti nell’effettuazione e versamento delle ritenute, certificazione degli emolumenti e di presentazione del modello 770.
Quanto alle modalità per adempiere a tali obblighi, l’Agenzia delle Entrate ha rinviato alle istruzioni di compilazione del Modello AA5/6 – “Domanda attribuzione codice fiscale, comunicazione variazione dati, avvenuta fusione, concentrazione, trasformazione, estinzione (soggetti diversi dalle persone fisiche)” – con particolare attenzione alle indicazioni fornite per i soggetti non residenti.
L’ente estero, qualora, invece, non abbia una stabile organizzazione in Italia, potrebbe assolvere ai necessari adempimenti fiscali relativamente ai compensi erogati solo dopo aver assunto la qualifica di sostituto d’imposta. In mancanza, sarà cura del personale ingaggiato con contratto di “prestazione occasionale” effettuare, in autonomia, opportuna dichiarazione dei redditi in Italia.
Con risposta ad interpello n. 447/2021, l’Agenzia delle Entrate ha preso in esame il quesito formulato da una società calcistica italiana militante nella massima serie, la quale ha chiesto chiarimenti in merito ai requisiti e al campo di applicazione del regime agevolativo per i lavoratori impatriati applicato ai professionisti sportivi.
Nello specifico, l’istante ingaggia i propri calciatori con contratti di lavoro subordinato disciplinati dalla Legge 91/1981, che regola i rapporti tra società e sportivi professionisti.
La società, al contempo, agisce come sostituto d’imposta, operando le ritenute fiscali sui compensi che eroga ai calciatori.
Per questi ultimi che, in presenza dei requisiti, richiedono l’applicazione del regime impatriati (art. 16, comma 5-quater, D.Lgs. 147/2015), le ritenute sono operate sul 50% dell’imponibile fiscale.
Secondo l’istante, ai fini dell’accesso al regime impatriati da parte dei cittadini di Stati extra-UE, è sufficiente l’integrazione dei requisiti di cui al primo comma dell’art. 16 del D.Lgs. 147/2015, non essendo, invece, necessario il soddisfacimento degli ulteriori requisiti previsti dal secondo comma del medesimo articolo.
Riferimenti normativi
Ai sensi del D.Lgs. 147/2015, i redditi di lavoro dipendente, i redditi assimilati e i redditi di lavoro autonomo prodotti in Italia da lavoratori che trasferiscono la residenza nel territorio dello Stato ai sensi dell’art. 2 del DPR n. 917/1986, concorrono alla formazione del reddito complessivo limitatamente al 30% del loro ammontare al ricorrere di determinate condizioni.
In primis, è necessario che i lavoratori non siano stati residenti in Italia nei due periodi d’imposta precedenti il trasferimento e si impegnino a risiedere in Italia per almeno due anni.
Contestualmente, è necessario che si verifichi il requisito secondo il quale l’attività lavorativa deve essere prestata prevalentemente all’interno del territorio italiano.
Tale disposizione è stata oggetto di modifiche normative, operate dall’art. 5 del DL n. 34 del 30 aprile 2019 (conv. nella Legge 28 giugno 2019, n. 58), in vigore dal 1° maggio 2019.
Per fruire del trattamento di cui al citato art. 16, in vigore a decorrere dal 1° maggio 2020, è necessario, infatti, che il lavoratore
Sono, altresì, destinatari del beneficio fiscale in esame i cittadini dell’Unione Europea o di uno Stato extra-UE con cui risulti in vigore una convenzione contro le doppie imposizioni o un accordo sullo scambio di informazioni in materia fiscale, i quali:
L’agevolazione in esame è fruibile dai contribuenti per un quinquennio, a decorrere dal periodo di imposta in cui trasferiscono la residenza fiscale in Italia.
Con riguardo ai soggetti che possono optare per l’accesso al regime agevolato, il comma 5-quater – introdotto nel testo dell’art. 16 a seguito delle modifiche apportate all’art. 5 del D.L. n. 34 del 2019 in sede di conversione – ha esteso la platea dei beneficiari anche agli sportivi professionisti disponendo che concorrono alla formazione del reddito complessivo limitatamente al 50% del loro imponibile fiscale.
Con la circolare del 28 dicembre 2020, n. 33/E, l’Agenzia delle Entrate ha, altresì, chiarito come il regime agevolativo trovi applicazione nei confronti di tutti i lavoratori che, nel rispetto delle condizioni normativamente previste, abbiano trasferito la residenza fiscale in Italia a decorrere dal 30 aprile 2019.
Successivamente, con provvedimento del Direttore dell’Agenzia delle Entrate del 3 marzo 2021, è stato stabilito che, per usufruire di tale regime agevolato, si debba procedere a versare un importo pari al 5% o al 10% dei redditi percepiti nell’annualità precedente. Sono esclusi i lavoratori sportivi professionisti, il cui reddito è detassato nella misura del 50% e sempreché versino un contributo pari allo 0,5% dell’imponibile, destinato al potenziamento dei settori giovanili.
Da un punto di vista comparatistico, l’idea dell’impiego della leva fiscale è un aspetto non trascurato anche da altri paesi europei: la previsione dell’art. 16 riflette, infatti, un processo in atto da anni in diversi paesi dell’Unione Europea.
Analoghe normative fiscali in favore di lavoratori impatriati sono state istituite in Francia, Spagna, Paesi Bassi e Portogallo senza tralasciare il sistema della “remittance basis” attualmente a regime nell’ordinamento di Irlanda e Regno Unito.
La risposta all’interpello
Sulla base dei chiarimenti forniti e dell’evoluzione normativa sopra esposta, l’Agenzia delle Entrate, con la risposta all’interpello in esame, ha chiarito che il lavoratore che ha trasferito nel 2020 la propria residenza fiscale in Italia può beneficiare dell’agevolazione fiscale prevista per i lavoratori impatriati per i redditi di lavoro dipendente prodotti in Italia a decorrere dall’anno di imposta 2020 (e per i quattro periodi successivi). Ciò, essendo sufficiente il soddisfacimento dei requisiti previsti al primo comma dell’art. 16 del D.Lgs. citato, ovverosia che il soggetto non sia stato residente in Italia nei due periodi d’imposta precedenti, he si impegni a risiedere in Italia per almeno due anni ed, infine, che l’attività lavorativa sia prestata prevalentemente nel territorio dello Stato.
Le aziende, mediante affissione in bacheca da effettuarsi fino al 31 agosto2021, informano i lavoratori non iscritti al sindacato che, in occasione del rinnovo del CCNL, i sindacati stipulanti Fim, Fiom e Uilm chiederanno una quota associativa straordinaria di Euro 35,00.
Tale quota dovrà essere trattenuta dal datore di lavoro sulla retribuzione afferente al mese di novembre 2021.
Insieme alle buste paga del mese di agosto 2021, i datori di lavoro distribuiranno ai lavoratori un modulo per consentire loro di accettare o rifiutare la richiesta del sindacato, il quale dovrà essere riconsegnato entro il 15 ottobre 2021.
Ai lavoratori in forza al 14 luglio 2020 deve essere erogato un importo “una tantum” pari ad Euro 200 lordi – parametrato sul III livello di inquadramento – da proporzionarsi con riferimento a tante quote mensili quanti sono i mesi di servizio effettivo prestati dal ciascun lavoratore nel periodo 1° luglio 2017 – 31 luglio 2020.
La frazione di mese superiore a 15 giorni è considerata, a tutti gli effetti, come mese intero.
Detto importo dovrà essere riproporzionato per i lavoratori a tempo parziale.
L’una tantum è corrisposto con le seguenti modalità:
L’importo è erogato ai lavoratori in forza alla data di erogazione di ciascuna tranche, in proporzione al numero di mesi svolti presso l’azienda.
L’importo è escluso dalla base di calcolo del T.F.R. ed è stato quantificato considerando in esso anche i riflessi sugli istituti di retribuzione diretta ed indiretta, di origine legale e contrattuale, ed è quindi comprensivo degli stessi.
Liv. |
Importi singola tranche |
Totale |
Euro |
||
1 |
68,03 |
272,13 |
2 |
56,97 |
227,88 |
3 |
50,00 |
200,00 |
4S |
47,54 |
190,16 |
4 |
45,08 |
180,32 |
5 |
40,98 |
163,92 |
Per le aziende del
in ragione della decorrenza posticipata della prima tranche di aumento, i termini relativi al contributo sindacale sono posticipati come segue:
La comunicazione, comprensiva del modulo di manifestazione del diniego, dovrà essere fornita ai lavoratori con i cedolini paga dei mesi di giugno e luglio 2021. L’eventuale diniego dovrà essere espresso entro il 10 agosto 2021.
La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 15118/2021, si è espressa in merito alla eventuale applicazione della normativa in materia di licenziamento collettivo all’ipotesi di avvio da parte del datore di lavoro di molteplici procedure ex art. 7 della Legge n. 604/1966.
I fatti di causa
Nel caso di specie una lavoratrice aveva impugnato il licenziamento per motivi economici intimatole, oltre che per l’asserita insussistenza della motivazione, per omessa procedura di licenziamento collettivo prevista dall’art. 24 della Legge n. 223/1991. Ciò in quanto la società datrice di lavoro aveva avviato di diverse procedure di cui all’art. 7 della Legge n. 604/1966 nei 120 giorni successivi al licenziamento, dovute – a dire della lavoratrice– alle medesime motivazioni di quest’ultimo.
Costituendosi in giudizio, la società datrice di lavoro aveva confermato la sussistenza della motivazione addotta a fondamento del licenziamento ma – al contempo – aveva negato di aver intimato ulteriori licenziamenti per motivazioni economiche. Le numerose procedure avviate ex “articolo 7” – complessivamente pari a nove – erano in realtà tutte confluite in accordi di risoluzione consensuale. A dire della società, in sostanza, “non vi erano stati comunque cinque licenziamenti nell’arco di 120 giorni”.
“Licenziamento” ed “intenzione di licenziare”
Ancorché rigettate in primo grado, le domande della lavoratrice avevano trovato accoglimento in appello: la corte territoriale, infatti, aveva ritenuto fondata la censura sulla omessa procedura di licenziamento collettivo, colpevolmente non attuata da parte della società.
Avverso la sentenza dei giudici di merito, la società proponeva ricorso in Cassazione, ribadendo che nel lasso temporale dei 120 giorni previsti dalla Legge n. 223/1991 non era stato intimato nessun ulteriore licenziamento per motivazioni economiche. A dire della stessa, in tale arco temporale “sarebbero avvenuti (…) solo delle dichiarazioni dell’intenzione di licenziare di cui all’art. 7 della Legge n. 604/1966”. Tali dichiarazioni non sarebbero risultate equiparabili ai “licenziamenti” a cui la Legge n. 223/1991 si riferisce espressamente e, secondo quanto argomentato da parte del datore di lavoro, la corte territoriale aveva di fatto erroneamente equiparato “l’intenzione di recedere ex art. 7 ad un vero e proprio licenziamento”.
La decisione della Corte di Cassazione
La Corte di Cassazione, nell’accogliere il ricorso della società datrice di lavoro, ha sottolineato come l’espressione “intenda licenziare” di cui all’art. 24 della Legge n. 223/1991 costituisce una chiara manifestazione della volontà di recedere dal rapporto di lavoro, pur subordinata all’esperimento della procedura del licenziamento collettivo istituita dal legislatore.
Al contrario, l’espressione “deve dichiarare l’intenzione di procedere al licenziamento per motivo oggettivo” contenuta dall’art. 7 della Legge n. 604/1966 è “imposta al fine di intraprendere la nuova procedura di compensazione (o conciliazione) dinanzi alla DTL, e non può quindi ritenersi di per sé un licenziamento”.
Alla luce di tali considerazioni, la Corte di Cassazione ha confermato la legittimità del licenziamento intimato alla lavoratrice, in quanto la società datrice di lavoro non era tenuta all’avvio procedura collettiva. L’avvio di più procedure ex “articolo 7” non è rilevante, di per sé, ai fini del calcolo del numero minimo di cinque recessi che impone ai datori di lavoro l’avvio dell’iter tipico del licenziamento collettivo. Ciò, anche se i recessi avvengono per le medesime motivazioni economiche e nell’arco dei 120 giorni, come determinato dalla Legge n. 223/1991.
Il Decreto Legge n. 34 del 19 marzo 2020 (c.d. Decreto Rilancio), convertito con modificazioni nella Legge 77/2020, ha previsto che le aziende private e le pubbliche amministrazioni, con singole unità locali con più di 100 dipendenti ubicate in un capoluogo di Regione, in una Città metropolitana, in un capoluogo di Provincia ovvero in un Comune con popolazione superiore a 50.000 abitanti, sono tenute ad adottare un piano degli spostamenti casa-lavoro (c.d. PSCL) del proprio personale dipendente. Ciò al fine di favorire il decongestionamento del traffico nelle aree urbane mediante la riduzione dell’uso del mezzo di trasporto privato individuale.
Lo scorso 26 maggio è stato pubblicato in Gazzetta Ufficiale il Decreto 12 maggio 2021 del Ministro della Transizione ecologica (il “Decreto”) recante le modalità attuative delle disposizioni di cui al Decreto Rilancio avente la finalità di “consentire la riduzione strutturale e permanente dell’impatto ambientale derivante dal traffico veicolare privato nelle aree urbane e metropolitane, promuovendo la realizzazione di interventi di organizzazione e gestione della domanda di mobilità delle persone che consentano la riduzione dell’uso del veicolo privato individuale a motore negli spostamenti sistematici casa-lavoro”.
Il Decreto ha stabilito che le aziende private e le pubbliche amministrazioni, per verificare la soglia dei 100 dipendenti, dovranno tenere in considerazione anche le persone che, se pur dipendenti da altre imprese, lavorano stabilmente – con presenza quotidiana e continuativa – presso l’unità locale in virtù di contratto di appalto, servizi o di forme di distacco, comando o altro.
Il Piano degli spostamenti casa–lavoro (PSCL)
Il PSCL deve individuare le misure per orientare gli spostamenti dei dipendenti dal luogo abitativo al luogo di lavoro verso forme di mobilità sostenibile alternative all’uso del veicolo privato a motore attraverso l’analisi degli spostamenti casa–lavoro, delle esigenze di mobilità dei lavoratori e dello stato di offerta di trasporto di persone presente sul territorio ove è ubicata l’impresa.
In tale piano devono essere definiti i benefici conseguibili con l’attuazione delle misure in esso contenute e devono esser valutati i vantaggi offerti ai dipendenti, all’impresa o pubblica amministrazione nonché alla collettività, in termini ambientali, sociali ed economici.
La redazione del PSCL deve essere completata entro il 31 dicembre di ogni anno con l’ausilio del c.d. Mobility Manager aziendale – una figura specializzata nella gestione e promozione della mobilità sostenibile nell’ambito degli spostamenti casa–lavoro del personale dipendente – e inviato al Comune di localizzazione dell’unità locale dell’impresa entro i successivi 15 giorni.
Entro 90 giorni dall’entrata in vigore del Decreto verranno divulgate le c.d. “Linee guida per la redazione e l’implementazione dei piani degli spostamenti casa-lavoro” con lo scopo di supportare le imprese nella redazione del PSCL.
Il Mobility Manager aziendale
Il Mobility Manager aziendale, in base alle disposizioni di cui all’articolo 6 del Decreto, ha il compito di:
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Il Decreto ha previsto che, in fase di prima applicazione, le aziende private e le pubbliche amministrazioni devono attuare il Piano spostamenti casa–lavoro con l’ausilio del Mobility Manager aziendale entro 180 dalla sua entrata in vigore, ovverosia entro il prossimo 23 novembre.
L’Agenzia delle Entrate è stata nuovamente chiamata in causa su un quesito avente ad oggetto i rimborsi spese riconosciuti ai dipendenti che svolgono la propria attività in modalità agile (c.d. “smart working”). In particolare, con la risposta ad interpello n. 371 del 24 maggio 2021 sono stati forniti chiarimenti circa il trattamento fiscale da riservare alle somme corrisposte dal datore di lavoro ai propri dipendenti a titolo di rimborso dei costi di connessione internet.
Il quesito del contribuente
Nel formulare l’interpello, il datore di lavoro istante ha, innanzitutto, comunicato all’Agenzia delle Entrate la propria intenzione di implementare un programma di smart working caratterizzato dal riconoscimento a ciascun dipendente del rimborso del costo della connessione con “chiavetta internet” o dell’abbonamento al servizio internet domestico.
Il datore di lavoro ha, poi, chiesto chiarimenti in merito alla rilevanza del suddetto rimborso spese per la determinazione del:
Secondo la soluzione interpretativa del contribuente, fondata sulla risoluzione n. 357/E del 7 dicembre 2007 in materia di rimborsi spese in favore del dipendente in “telelavoro”, il rimborso del costo della connessione internet riconosciuto al dipendente – essendo strumentale allo svolgimento dell’attività lavorativa – non costituisce reddito per quest’ultimo ed è integralmente deducibile dal reddito d’impresa.
Il parere dell’Agenzia delle Entrate
Nel formulare il parere sul primo quesito oggetto dell’interpello, relativo ai profili IRPEF, l’Agenzia delle Entrate rammenta che i redditi da lavoro dipendente sono disciplinati, ai sensi dell’articolo 51, comma 1, del testo unico delle imposte sui redditi, approvato con DPR n. 917/ 1986 (TUIR), dal c.d. principio di onnicomprensività.
In forza di tale principio costituiscono reddito di lavoro dipendente «tutte le somme e i valori in genere, a qualunque titolo percepiti nel periodo d’imposta, anche sotto forma di erogazioni liberali, in relazione al rapporto di lavoro».
In linea generale, salve le eccezioni previste nelle ipotesi di trasferte e trasferimenti (di cui ai commi 5 e seguenti del medesimo articolo 51), anche le somme corrisposte al lavoratore a titolo di rimborso spese costituiscono, per lo stesso, reddito di lavoro dipendente e, pertanto, sono soggette ad imposizione fiscale e previdenziale.
Fermi restando i principi generali dell’ordinamento tributario sopra esposti, l’Agenzia delle Entrate richiama la circolare del 23 dicembre 1997, n. 326 secondo la quale taluni rimborsi possono essere esclusi da imposizione fiscale. In particolare, risultano esenti i rimborsi che riguardano spese, diverse da quelle sostenute per produrre il reddito, di competenza del datore di lavoro ma anticipate dal dipendente per snellezza operativa. Ad esempio, le spese sostenute per l’acquisto di beni strumentali di piccolo valore (quali la carta della fotocopia o della stampante, le pile della calcolatrice, etc..).
In relazione alla fattispecie prospettata dal contribuente, viene evidenziato che il rimborso erogato dal datore di lavoro non è relativo al solo costo riferibile all’esclusivo interesse del datore di lavoro. L’istante rimborserebbe tutte le spese sostenute dal dipendente per l’attivazione e per i canoni di abbonamento al servizio di connessione dati internet, consentendogli un accesso pieno e illimitato a tutte le funzionalità oggi fruibili e offerte dalla tecnologia presente sul mercato.
Inoltre, la relazione tra l’utilizzo della connessione internet e l’interesse del datore di lavoro è dubbio in quanto il contratto relativo al traffico dati non è scelto e stipulato dal datore di lavoro che, limitandosi a rimborsarne i costi, rimane estraneo al rapporto negoziale instaurato con il gestore scelto dal dipendente.
L’Agenzia delle Entrate giunge, dunque, alla conclusione che il rimborso dei costi internet sostenuti dal dipendente in smart working, non essendo supportato da elementi e parametri oggettivi e documentati, non può essere escluso dalla determinazione del reddito di lavoro dipendente e, conseguentemente, rileverà fiscalmente nei confronti del dipendente ai sensi dell’articolo 51, comma 1, del TUIR.
Con riferimento ai profili IRES, l’articolo 95 del TUIR dispone che «Le spese per prestazioni di lavoro dipendente deducibili nella determinazione del reddito comprendono anche quelle sostenute in denaro o in natura a titolo di liberalità a favore dei lavoratori, salvo il disposto dell’articolo 100, comma 1».
Nel caso di specie, il rimborso riconosciuto al dipendente per l’attivazione e per i canoni di abbonamento al servizio di connessione internet risulta sostenuto per soddisfare un’esigenza del dipendente stesso, legata alle modalità di prestazione dell’attività lavorativa in smart working, che concorre ad assicurare la rispondenza della retribuzione alle esigenze del lavoratore.
In sostanza, solamente nella misura in cui l’attivazione della connessione internet rappresenta un obbligo implicito della prestazione pattuita, tramite l’accordo individuale ex Legge 81/2017, sottoscritto tra datore di lavoro e dipendente, i relativi rimborsi potranno essere deducibili ai fini IRES, ai sensi dell’articolo 95, comma 1, del TUIR, in quanto assimilabili alle “Spese per prestazioni di lavoro”.
Le gravi ricadute sull’economia e sul regolare andamento dei rapporti di lavoro causate dall’emergenza epidemiologica da Covid-19 hanno reso necessario l’introduzione di specifiche disposizioni in materia di contratti a tempo determinato. Tali misure rappresentano principalmente strumenti di deroga alle disposizioni normative previste dal Decreto-Legge 87/2018 (C.d. Decreto Dignità) che in un’ottica di incentivazione dei contratti a tempo indeterminato, ha profondamente ridefinito i contratti a termine con l’introduzione di causali specifiche e riducendone la durata massima da 36 a 24 mesi.
Riferimenti normativi e prassi
La legge di conversione del Decreto-Legge 18/2020 (Decreto Cura Italia) ha previsto due importanti deroghe.
In primis, è stata introdotta la possibilità di stipulare contratti a termine in deroga al divieto di stipulare contratti a termine o di somministrazione, presso le unità produttive in cui vi sia un contestuale ricorso agli ammortizzatori sociali (art. 20, co. 1, lett. C) e art. 32, co. 1, lettera c), D.Lgs. 81/2015).
Contestualmente, è stata introdotta la possibilità di stipulare contratti a termine in deroga all’obbligo di lasciar intercorrere un periodo di sospensione tra un contratto a termine e il suo rinnovo presso lo stesso datore (c.d. stop&go, art. 21, co. 2, D. Lgs. 81/2015).
Con l’obiettivo di rendere ancor meno stringente la normativa emergenziale in materia di contratti a termine in ragione dell’imprescindibile esigenza di salvaguardia dei rapporti di lavoro, il Decreto Rilancio ha introdotto la deroga all’obbligo delle causali in caso di rinnovo o proroga dei contratti a termine in corso alla data del 23 febbraio 2020, entro il 30 agosto 2020.
Il Decreto Agosto ha successivamente riformulato la deroga alla causale, prevedendo la possibilità di prorogare o rinnovare i contratti a termine in maniera acausale per un periodo massimo di dodici mesi e per una sola volta ma comunque nel rispetto del limite di durata massima complessiva di ventiquattro mesi.
Inoltre, contrariamente alla deroga introdotta dal Decreto Rilancio, non è stato più richiesto che il contratto a termine rinnovato fosse già in essere al 23 febbraio, estendendo la possibilità di proroga o rinnovo entro il 31 dicembre 2020, anche per i contratti in scadenza successivamente a tale data.
Il Decreto Sostegni poi ha esteso la finestra di accesso alle proroghe e ai rinnovi acausali dapprima fino al 31 marzo ed infine fino al 31 dicembre 2021.
Nella sequenza evolutiva della normativa derogatoria all’obbligo di causale si insinua la precisazione contenuta nell’art. 19bis del Decreto Cura Italia secondo la quale i contratti a termine possano essere prorogati e/o rinnovati anche in caso di ricorso ad ammortizzatori sociali.
Sul punto è intervenuto l’Ispettorato Nazionale del Lavoro (“INL”), con la nota n. 762 del 12 maggio 2021, precisando che la deroga riguarda gli strumenti di integrazione salariale emergenziali previsti dalla normativa Covid-19, a favore dei “lavoratori in forza alla data di entrata in vigore” del Decreto Sostegni (cfr. art. 8, D. L. 41/2021).
Pertanto, secondo la normativa attualmente in vigore, i contratti a termine possono essere prorogati o rinnovati fino al 31 dicembre 2021 senza alcun obbligo di causale per una sola volta e per una durata di 12 mesi a condizione che la durata massima complessiva non superi i 24 mesi.
Contestualmente non sussiste alcun divieto di stipulare contratti a termine presso le unità produttive in cui vi è un contestuale ricorso agli ammortizzatori sociali previsti dalla normativa Covid-19 (art. 20, co. 1, lett. C), D. Lgs. 81/2015) e, infine, non vi è l’obbligo di interruzione stop&go in caso di rinnovo (art. 21, co. 2, D. Lgs. 81/2015).
La nota dell’Ispettorato del Lavoro
A seguito di una richiesta di indicazioni da parte dell’Ispettorato territoriale di Genova, l’INL, con la nota n. 804 del 19 maggio 2021, ha ricostruito il quadro delle regole per la successione di contratti a termine.
Innanzitutto, l’INL ha evidenziato come l’art. 19, comma 2, D.Lgs. 81/2015, limiti la successione massima di contratti a termine tra le stesse parti per una durata complessiva pari a 24 mesi, ovvero al diverso limite previsto dalla contrattazione collettiva sul presupposto che i contratti intercorsi si caratterizzino per lo svolgimento di mansioni di pari livello.
Raggiunta tale soglia, le parti possono sottoscrivere un’ulteriore deroga “assistita” presso l’ITL, di durata massima pari a 12 mesi.
Viene, altresì, precisato che se i contratti sottoscritti riguardano inquadramenti di livello e di categoria legale non coincidenti, ai fini del calcolo della durata massima di 12 mesi, si determineranno diversi contatori e, anche se fosse raggiunta la soglia massima di 24 mesi complessiva fra tutti i contratti, non si determinerà la necessità di procedere con la deroga assistita presso l’ITL.
Infine, l’INL ha evidenziato come, nel momento in cui si determini una rilevante e consistente successione di contratti formalmente ancorati a inquadramenti diversi, l’ITL verificherà tali situazioni con particolare attenzione all’effettività dell’inquadramento nelle evoluzioni delle mansioni e del relativo inquadramento.
Con decorrenza dal mese di luglio 2021, l’aliquota contributiva a carico del datore di lavoro per la previdenza complementare è fissata in ragione dello 0,15% della retribuzione utile per il calcolo del TFR.
L’aliquota contributiva a carico del lavoratore, invece, rimane fissata all’1,40% della retribuzione utile per il calcolo del TFR.
A decorrere dal 1° luglio 2021, le parti firmatarie del CCNL hanno inteso estendere a tutti i dipendenti del settore un fondo di assistenza sanitaria integrativa, attraverso l’adesione al fondo di assistenza sanitaria integrativa “Sanimoda”.
A tal fine, le parti hanno concordano:
Le organizzazioni sindacali chiedono ai lavoratori non iscritti ad alcuna sigla sindacale un contributo spese di Euro 25,00 a titolo di “contributo spese trattativa rinnovo CCNL”.
Tale contributo sarà trattenuto sulle competenze del mese di luglio 2021 da parte dei datori di lavoro, salvo diniego da parte dei lavoratori coinvolti.
Al personale assunto prima del 1° gennaio 2020 ed ancora in servizio alla data di sottoscrizione dell’Accordo di Rinnovo (11 maggio 2021) è riconosciuto un importo a titolo di “una tantum” pari ad Euro 1.200,00, parametrati sulla categoria C3.
Tale “una tantum” è erogata in quattro tranches da Euro 300,00 ciascuna, da riparametrare per le altre categorie, la prima delle quali dovuta nel mese di luglio 2021.
Le altre tranches dovranno essere erogate, rispettivamente, nei mesi di settembre 2021, novembre 2021 e gennaio 2022.
A decorrere dal 1° luglio 2021, l’aliquota contributiva a carico dell’azienda da versare in favore del “Fondo previdenza Arco” è fissata nel 2,50% della retribuzione utile per il calcolo del TFR.
Nel mese di luglio 2021 i datori di lavoro sono tenuti a versare un contributo aziendale allo scopo di finanziare i servizi per la formazione.
Tale contributo, pari ad un importo “una tantum” di Euro 1,50 per dipendente, dovrà essere versato con modalità che le parti sociali devono ancora stabilire.
Al fine del calcolo del contributo verrà considerato il personale in forza a tempo indeterminato presso il datore di lavoro al 31 dicembre 2020.
Le aziende, mediante affissione in bacheca di apposito comunicato, da effettuarsi dal 1° luglio 2021 al successivo 31 agosto, renderanno noto ai lavoratori che, in occasione del rinnovo del CCNL, ai sindacati stipulanti (FIM, FIOM e UILM) sarà dovuto un contributo a titoli di quota associativa straordinaria pari ad Euro 35,00, che verrà trattenuto sulla retribuzione afferente al mese di novembre 2021.
Le aziende distribuiranno, insieme alle buste paga del mese di agosto 2021, un apposito modulo che consentirà al lavoratore di accettare o rifiutare la richiesta del sindacato da riconsegnare entro il 15 ottobre 2021.
Ad integrale copertura del periodo di carenza contrattuale, ai soli lavoratori in servizio alla data di stipula dell’accordo di rinnovo del CCNL (18 maggio 2021) i datori di lavoro sono tenuti a corrispondere un importo forfettario lordo pro-capite di Euro 230,00, maturato in quote mensili o frazioni in relazione alla durata del rapporto nel periodo di carenza.
L’importo è erogato in tre rate di cui la prima – pari ad Euro 100,00 – entro il mese di luglio 2021.
Le ulteriori due rate, rispettivamente pari ad Euro 50,00 e ad Euro 80,00, saranno corrisposte con la retribuzione del mese di ottobre 2021 e con la retribuzione del mese di aprile 2022.
Nel mese di luglio 2021 i datori di lavoro sono tenuti a distribuire ai lavoratori i moduli utili a manifestare il diniego all’assoggettamento del contributo sindacale. La disposizione riguarda, in particolare, le aziende della produzione di vetro piano, della produzione di lana e filati di vetro, delle seconde lavorazioni del vetro piano, del vetro artistico e tradizionale. Il diniego dovrà essere espresso entro il 10 agosto 2021.
L’eventuale trattenuta sarà operata nel mese di agosto 2021 e versata alle sigle entro il 30 settembre 2021.
Le parti stipulanti il CCNL hanno concordato di istituire un elemento promozionale del welfare previdenziale pari ad Euro 100,00 “una tantum”, da erogare in favore di tutti i lavoratori in forza con contratto a tempo indeterminato al primo giorno di calendario del mese in cui verrà effettuato il versamento.
Il conferimento avverrà secondo le seguenti modalità:
Il suddetto contributo rientra, inoltre, nel trattamento economico complessivo (TEC), definito dal CCNL.
A decorrere dal 1° luglio 2021 è previsto un aumento dei minimi retributivi tabellari dei seguenti contratti collettivi nazionali di lavoro:
L’Agenzia delle Entrate, mediante diverse risposte ad interpello, si è espressa in merito al trattamento fiscale delle somme erogate a titolo di rimborso spese nei confronti dei dipendenti in smart working.
In particolare, nelle tre risposte ad interpello qui in argomento – ovverosia la n. 314/2021, la n. 328/2021 e la n. 371/2021 – l’autorità fiscale ha ripercorso lo stato attuale della normativa che fissa i criteri utili a determinare l’entità del reddito di lavoro dipendente, esaminando, a seguire, le singole fattispecie caso per caso.
Oggetto della risposta ad interpello n. 314/2021, nel dettaglio, è stato il rimborso spese forfettario devoluto dal datore di lavoro ai proprio dipendenti in smart working: detto rimborso corrisponde ad un importo di Euro 0,50 spettante a ciascun lavoratore per ogni giorno di lavoro da remoto. Tale somma – quantificata alla luce del confronto tra il risparmio giornaliero dell’impresa ed i costi quotidiani sostenuti dai lavoratori – risulta, nelle intenzioni del datore di lavoro, funzionale a “tenere indenni i dipendenti dalle spese che si troveranno a sostenere per ragioni lavorative quando opereranno presso la propria abitazione”.
Sul punto, l’Agenzia delle Entrate ha dapprima ricordato come – considerato il contenuto dell’art. 51, comma 1 del TUIR, che sancisce il principio di onnicomprensività del reddito di lavoro dipendente – “in linea generale […] tutte le somme che il datore di lavoro corrisponde al lavoratore, anche a titolo di rimborso spese, costituiscono per quest’ultimo reddito di lavoro dipendente”.
Ad ogni modo, viene rilevato che, in deroga al sopra citato principio, “possono essere esclusi da imposizione quei rimborsi che riguardando spese, diverse da quelle sostenute per produrre il reddito, di competenza del datore di lavoro, anticipate dal dipendente, ad esempio, per l’acquisto di beni strumentali di piccolo valore, quali la carta della fotocopia o della stampante, le pile della calcolatrice, etc.” (circolare dell’AE n. 326/1997). Inoltre, l’autorità fiscale ricorda che “le spese sostenute dal lavoratore e rimborsate in modo forfettario sono escluse dalla base imponibile solo nell’ipotesi in cui il legislatore abbia previsto un criterio volto a determinare la quota che, dovendosi ritenere feribili all’uso nell’interesse del datore di lavoro, può essere esclusa dall’imposizione”.
In assenza di tale determinazione operata dal legislatore, viene chiarito che i costi sostenuti da parte del lavoratore nell’esclusivo interesse del datore di lavoro debbano essere individuati sulla base di criteri “oggettivi” e “documentalmente accertabili”, così da beneficiare del regime di esenzione.
Nel caso prospettato dall’istante, l’Agenzia evidenzia che tali criteri sono effettivamente stati utilizzati da parte dell’impresa per determinare la quota di rimborso spettante a ciascun lavoratore: pertanto, al rimborso giornaliero forfettario di Euro 0,50 potrà applicarsi il regime di esenzione fiscale tipico dei rimborsi spese.
Nella risposta ad interpello n. 328/2021 viene, invece, affrontato il caso di un’impresa intenzionata a pattuire con i lavoratori in smart working un rimborso pari al 30% del costo dei consumi domestici da loro sostenuti per connessione internet, corrente elettrica, aria condizionata, riscaldamento, etc.
Per le medesime motivazioni illustrate nell’interpello precedente, l’Agenzia delle Entrate ha, questa volta, negato il proprio parere favorevole all’applicazione del regime di esenzione a tali rimborsi. Difatti, un rimborso genericamente identificato nella misura del 30% dei costi sostenuti dai lavoratori non deriva dall’applicazione di quei criteri “oggettivi e documentalmente accertabili” che devono guidare il datore di lavoro nella determinazione dell’importo dei rimborsi.
“Al fine di non far concorrere il rimborso spese alla determinazione del reddito di lavoro dipendente” – illustra infatti l’Agenzia – “occorrerebbe adottare un criterio analitico che permetta di determinare per ciascuna tipologia di spesa […] la quota di costi risparmiati dalla società che, invece, sono stati sostenuti dal dipendente, in maniera tale da poter considerare la stessa quota […] di costi rimborsati a tutti i dipendenti riferibile a consumi sostenuti nell’interesse esclusivo del datore di lavoro”.
Infine, nella risposta n. 371/2021 si esamina l’interpello presentato da un’impresa intenzionata a rimborsare a ciascun dipendente in smart working il costo della connessione internet domestica, così da agevolare la resa della prestazione lavorativa da remoto.
In relazione alla fattispecie in esame, l’Agenzia delle Entrate ha osservato che “il rimborso da parte del datore di lavoro non è relativo al solo costo riferibile all’esclusivo interesse del datore di lavoro, dal momento che l’istante rimborserebbe tutte le spese sostenute dal lavoratore per l’attivazione e per i canoni di abbonamento al servizio di connessione dati internet”.
Viene inoltre rilevato come la relazione tra l’utilizzo della connessione internet e l’interesse del datore di lavoro risulti dubbio, poiché il contratto relativo al traffico dati non è scelto e stipulato dal datore di lavoro che, limitandosi a rimborsarne i costi, rimarrebbe “estraneo al rapporto negoziale instaurato con il gestore”. Dalla descrizione della fattispecie non emerge, altresì, l’entità precisa dell’importo del costo che verrebbe rimborsato da parte del datore di lavoro ai dipendenti.
Anche in quest’ultimo caso, dunque, la determinazione del rimborso risulta fallace sotto il profilo dei parametri oggettivi e documentabili, utili a consentire l’esenzione fiscale e contributiva di tali somme.
Sulla base di quanto osservato, l’Agenzia delle Entrate è pertanto risultata dell’avviso che “il costo relativo al traffico dati che la società̀ istante intende rimborsare al dipendente, non essendo supportato da elementi e parametri oggettivi e documentati, non sembra poter essere escluso dalla determinazione del reddito di lavoro dipendente e, conseguentemente, rileverà̀ fiscalmente nei confronti dei dipendenti ai sensi dell’articolo 51, comma 1, del TUIR”.
L’Agenzia delle Entrate, con la risposta ad interpello n. 270/2021, è tornata ad esprimersi in merito al regime fiscale di favore riservato al premio di risultato (“PDR”) corrisposto a seguito di apposito accordo sindacale e consistente, ai sensi dell’art. 1, commi da 182 a 189, della Legge 208/2015, nell’applicazione di un’aliquota del 10%, sostitutiva dell’IRPEF e delle relative addizionali regionali e comunali all’imponibile di tale premio.
I fatti oggetto di interpello, in particolare, attengono alla possibile detassazione del PDR erogato dal datore di lavoro a seguito della rideterminazione degli obiettivi aziendali dovuta alla pandemia da COVID-19.
La società istante, operante nel settore dei “giochi leciti e delle scommesse”, ha stipulato, il 29 marzo 2019, un accordo integrativo aziendale con le organizzazioni sindacali, con decorrenza dal 1° gennaio 2019 al successivo 31 dicembre, allo scopo di istituire un premio di risultato a valenza annuale.
Il PDR è stato istituito su base variabile e non determinabile a priori; inoltre, l’erogazione dello stesso è stata vincolata all’incremento dell’EBITDA (o margine operativo lordo) dell’anno oggetto di monitoraggio, da compararsi a quello dell’anno precedente.
A causa dell’emergenza sanitaria e delle conseguenti politiche di contenimento dei contagi, concretizzatesi nella chiusura di molte attività economiche, il contratto è stato oggetto di numerose proroghe, fino ad arrivare all’ultima scadenza fissata, dalle parti, al 31 dicembre 2020.
Oltre alla proroga, al fine di poter confrontare in modo omogeneo l’EBITDA del 2020 con quello del 2019, la società istante e le organizzazioni sindacali hanno convenuto di ricalcolare l’EBITDA del 2019, riducendolo in proporzione al numero dei giorni di sospensione dell’attività del 2020 dovuta al “lockdown”.
In considerazione del minore periodo di tempo di apertura dell’attività, le parti hanno, altresì, convenuto una corrispondente riduzione dell’ammontare del PDR erogabile, il cui importo lordo massimo è stato fissato in Euro 2.000,00, in luogo del precedente ammontare di Euro 2.800,00.
Date queste premesse, la società istante ha rappresentato il dubbio interpretativo attinente alla possibilità di applicare la detassazione al PDR nonostante il ricalcolo dell’EBITDA del 2019 abbia comportato una ridefinizione artificiosa dei parametri utili alla verifica del rendimento aziendale, allo scopo di rendere omogeneo il dato del margine operativo lordo del 2019 a quello del 2020.
Pertanto, come evidenziato dalla società istante, il confronto avviene, di fatto, tenendo in considerazione i periodi di chiusura forzata dell’attività economica e, di conseguenza, “non viene ad essere effettuato con riferimento all’intero anno, ma con riferimento al minor periodo in cui l’attività è stata svolta (ossia al netto dei giorni di sospensione dell’attività dei punti vendita)”.
L’Agenzia delle Entrate, nel rispondere all’interpello, effettua dapprima un excursus della normativa di settore, ricordando come la corresponsione di tali premi, nell’intenzione del legislatore, debba risultare “legata ad incrementi di produttività, redditività, qualità, efficienza ed innovazione, misurabili e verificabili” sulla base di determinati criteri.
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L’Agenzia delle Entrate è stata chiamata ad esprimersi a seguito dell’istanza di interpello presentata da una società operante nel mercato dell’abbigliamento ed avente come oggetto sociale la commercializzazione al dettaglio di capi d’abbigliamento, affidando a terzi la loro produzione.
Con il principale intento di rafforzare il proprio marchio e la propria presenza sul mercato, la società ritiene importante coinvolgere i propri dipendenti nel veicolare i prodotti commercializzati e, a tale fine, intraprendere una serie di iniziative nei loro confronti.
L’interpello della società istante
Nello specifico, la società istante è intenzionata ad attribuire a tutti i propri dipendenti una “tessera sconto” (o “card”) tale da permettere loro di acquistare prodotti a prezzo scontato rispetto a quello di listino. La tessera sarebbe nominativa, non cedibile, utilizzabile esclusivamente dal dipendente e non cumulabile con iniziative analoghe adottate sul mercato (ad esempio, allorquando la società adotta delle campagne di sconto nei confronti della totalità della clientela).
Lo sconto sarebbe pari a circa il 25% del prezzo di vendita finale del prodotto, con la precisazione che:
– i prodotti sarebbero venduti ai dipendenti beneficiari ad un prezzo, in ogni caso, superiore rispetto a quello che la società pratica nei confronti degli altri soggetti, nonché maggiore rispetto al costo sostenuto dalla stessa;
– in alcuni periodi dell’anno lo sconto praticato ai dipendenti potrebbe essere di eguale importo rispetto a quello di cui si possono avvantaggiare gli altri clienti.
Mediante l’istanza di interpello in esame, la società ha chiesto all’Agenzia delle Entrate se la concessione della “card” ai propri dipendenti possa rappresentare per gli stessi un compenso in natura imponibile e, come tale, soggetto ad assoggettamento fiscale.
Il parere dell’Agenzia delle Entrate
L’Agenzia delle Entrate – mediante la risposta ad interpello n. 221 del 29 marzo 2021 – ha, innanzitutto, osservato che l’art. 51, comma 1 del TUIR definisce il reddito di lavoro dipendente come l’insieme di “tutte le somme e i valori in genere, a qualunque titolo percepiti nel periodo di imposta, anche sotto forma di erogazioni liberali, in relazione al rapporto di lavoro”.
A parere dell’Agenzia tale disposizione sancisce il principio dell’onnicomprensività del reddito di lavoro dipendente, ovvero l’assoggettamento a tassazione, in generale, di tutto ciò che il lavoratore dipendente percepisce in relazione al rapporto di lavoro.
L’Agenzia ha evidenziato come questa previsione legislativa ricomprenda, oltre alla normale retribuzione, quei “vantaggi economici” che i lavoratori subordinati possono conseguire ad integrazione della stessa, come ad esempio compensi in natura consistenti in opere, servizi, prestazioni e beni, anche prodotti dallo stesso datore di lavoro.
Sul punto, l’autorità fiscale ha ricordato che il medesimo art. 51 del TUIR chiarisce, al comma 3, che “ai fini della determinazione in denaro dei valori di cui al comma 1 […] si applicano le disposizioni relative alla determinazione del valore normale dei beni e dei servizi […] Il valore normale dei generi in natura prodotti dall’azienda e ceduti ai dipendenti è determinato in misura pari al prezzo mediamente praticato dalla stessa azienda nelle cessioni al grossista”.
In particolare, la normativa fiscale prevede che “per la determinazione del valore normale si fa riferimento, in quanto possibile, ai listini o alle tariffe del soggetto che ha fornito i beni o i servizi e, in mancanza, alle mercuriali e ai listini delle camere di commercio e alle tariffe professionali, tenendo conto degli sconti d’uso” (art. 9 del TUIR).
In conformità a quanto sopra, l’Agenzia delle Entrate – dato l’espresso riferimento della normativa agli “sconti d’uso” – ha affermato che, nel caso in cui il datore di lavoro commercializzi e venda ai propri dipendenti beni o servizi ad un prezzo scontato, l’eventuale rilevanza reddituale deve essere considerata in ragione del principio di onnicomprensività già enunciato. Al riguardo – come chiarito dal Ministero delle Finanze con circolare 326/1997 – l’Agenzia ha illustrato come il reddito da assoggettare a tassazione sia pari al valore normale “soltanto se il bene è ceduto gratuitamente, dal momento che se, invece, per la cessione dello stesso il dipendente corrisponde delle somme, il valore da assoggettare a tassazione è pari alla differenza tra il valore normale del bene ricevuto e le somme pagate”.
L’autorità fiscale ha, altresì, osservato come il prezzo pagato dai dipendenti per i beni acquistati mediante la tessera sconto sia superiore a quello pagato dai soggetti legati al datore di lavoro, ad esempio, da accordi di franchising o di somministrazione. Pertanto, il prezzo pagato dal lavoratore dipendente non può configurarsi quale corrispettivo simbolico che “maschera” l’erogazione di una retribuzione.
Inoltre, lo sconto praticato ai dipendenti non supera quello applicato, in alcuni periodi dell’anno, agli altri clienti e non può essere cumulato con altre iniziative commerciali analoghe adottate in favore della clientela.
Conclusioni
Sulla base di tali considerazioni, l’Agenzia delle Entrate non ha ravvisto alcuno “sconto” fiscalmente rilevante, né materia fiscalmente imponibile, poiché il dipendente corrisponde il valore normale del bene al netto degli sconti d’uso. Al contrario, a detta dell’autorità fiscale, “la rilevanza fiscale dello sconto applicato sul prezzo dei capi di abbigliamento acquistati dai dipendenti della Società istante genererebbe […] una disparità di trattamento tra i clienti dell’Istante che potrebbero acquistare la merce ad un prezzo scontato e i dipendenti della medesima Società che vedrebbero tassato il vantaggio economico”.
Infine, la circostanza che lo sconto venga riconosciuto al dipendente attraverso la tessera non costituisce un “vantaggio economico” per lo stesso, in quanto le caratteristiche della “card” – ovverosia l’essere nominativa, non cedibile, utilizzabile esclusivamente dal dipendente e non cumulabile con iniziative analoghe adottate sul mercato – consentono di configurarla come un “mero strumento tecnico attraverso il quale viene consentita la fruizione dello sconto”.
In conclusione, può dirsi che la “card sconto” non costituisce un benefit che genera reddito imponibile laddove il prezzo finale pagato dagli stessi per l’acquisto del bene (o del servizio), al netto degli sconti d’uso, non sia inferiore a quello praticato sul mercato.
Fonte: Agendadigitale.eu
La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 5547 del 1° marzo 2021, ha affermato che al lavoratore che non può usufruire del servizio di mensa aziendale per ragioni di servizio è dovuto il buono pasto sostitutivo, in caso di orario di lavoro giornaliero eccedente le 6 ore.
I fatti di causa hanno visto un lavoratore turnista, impiegato presso un’azienda ospedaliera, proporre domanda di accertare il proprio diritto alla percezione dei buoni pasto per ogni turno lavorativo eccedente le sei ore, chiedendo altresì il risarcimento del danno al datore di lavoro.
La Corte d’Appello di Messina, in conferma di quanto determinato in primo grado, ha accolto la rivendicazione del lavoratore con sentenza in data 18 dicembre 2018, n. 906.
Tale sentenza è stata, in seguito, impugnata dal datore di lavoro, che ne ha chiesto la cassazione.
In particolare, il lavoratore svolgeva un orario di 7 ore nel turno pomeridiano e di 11 ore nel turno notturno. Egli non avrebbe potuto fruire del servizio di mensa aziendale, in quanto non poteva essere sospeso il servizio di assistenza e, inoltre, non era presente un servizio di mensa serale. Pertanto, doveva riconoscersi al lavoratore il diritto ai buoni pasto, quale elemento sostitutivo del servizio di mensa aziendale, oltre al risarcimento del danno dovutogli per aver provveduto al pasto a proprie spese.
A dire del datore di lavoro, la sentenza della corte territoriale ha identificato, in modo erroneo, il diritto alla pausa con il diritto alla mensa. Nella fattispecie in esame, infatti, tale corte aveva osservato che l’articolo 29, comma 3 del CCNL integrativo del comparto sanità del 20 settembre 2001 dovesse essere interpretato in combinato disposto con il D.Lgs. 66/2003, articolo 8. Da tale considerazione aveva pertanto concluso il diritto al buono pasto del lavoratore.
Oggetto del ricorso del datore di lavoro è stato, altresì, l’osservazione di come il lavoratore potesse “provvedere alla consumazione del pasto prima di iniziare il turno pomeridiano ed il turno notturno”. La normativa, infatti, non attribuisce il diritto alla mensa, ma disciplina “esclusivamente il diritto alla pausa, essendo comunque una possibilità quella di consumare il pasto durante la pausa”.
Sull’argomento, la Corte di Cassazione ha rilevato come l’art. 29 del CCNL 20 settembre 2001, integrativo del CCNL del 7 aprile 1999, preveda il diritto alla mensa per tutti i dipendenti “nei giorni di effettiva presenza al lavoro, in relazione alla particolare articolazione dell’orario”. Inoltre, viene osservato come le aziende, “in relazione al proprio assetto organizzativo e compatibilmente con le risorse disponibili, possono istituire mense di servizio o, in alternativa, garantire l’esercizio del diritto di mesa con modalità sostitutive. In ogni caso l’organizzazione e la gestione dei suddetti servizi, rientrano nell’autonomia gestionale delle aziende, mentre resta ferma la competenza del CCNL nella definizione delle regole in merito alla fruibilità e all’esercizio del diritto di mensa da parte dei lavoratori”.
Dalla lettura del CCNL, la Suprema Corte evince come la consumazione del pasto – ed il connesso diritto alla mensa o al buono pasto – sia prevista nell’ambito di un intervallo non lavorato. Pertanto, i giudici convengono sul fatto che “la particolare articolazione dell’orario di lavoro è quella collegata alla fruizione di un intervallo di lavoro”. Da qui il rilievo dell’articolo 8 del D.Lgs. 66/2003, secondo il quale “il lavoratore deve beneficiare di un intervallo per la pausa qualora l’orario di lavoro giornaliero ecceda il limite di sei ore, ai fini del recupero delle energie psicofisiche e della eventuale consumazione del pasto”.
Dal testo legislativo, dunque, la Corte ricava l’assunto secondo il quale “la consumazione del pasto è legata alla pausa di lavoro e avviene nel corso della stessa”: da tale interpretazione emerge la coerenza del collegamento tra il diritto alla mensa ex articolo 29, comma 2 del CCNL integrativo sanità del 20 settembre 2001 e il diritto alla pausa.
È effettivamente dovuto, pertanto, il buono pasto al lavoratore che svolga la propria prestazione nel corso di un orario di lavoro eccedente le sei ore, qualora impossibilitato a fruire del servizio di mensa aziendale.
Confermando la sentenza di secondo grado, la Corte di Cassazione rigetta dunque il ricorso del datore di lavoro, condannandolo al pagamento di spese e accessori di legge.
Il regime fiscale di favore previsto dall’articolo 1, commi da 182 a 189, della Legge n. 208/2015 e consistente nell’applicazione di un’aliquota del 10%, sostitutiva dell’IRPEF e delle relative addizionali regionali e comunali trova applicazione nei confronti del premio di risultato (“PDR”) corrisposto ai lavoratori anche in caso di rideterminazione degli obiettivi aziendali a seguito della pandemia da COVID-19.
I fatti oggetto dell’istanza di interpello
Il datore di lavoro istante, in data 29 marzo 2019, sottoscriveva con le organizzazioni sindacali un accordo integrativo aziendale utile ad istituire un premio di risultato a valenza annuale. L’accordo decorreva dal 1° gennaio 2019 al successivo 31 dicembre.
Nel dettaglio, il premio di risultato quantificato su base variabile e non determinabile a priori, era erogabile a seguito dell’incremento dell’EBITDA (o margine operativo lordo) dell’anno oggetto di monitoraggio rispetto all’anno precedente.
In seguito, l’accordo è stato oggetto di numerose proroghe, motivate dalle politiche di contenimento dei contagi seguenti al diffondersi della pandemia, fino ad arrivare all’ultima scadenza fissata, dalle parti, al 31 dicembre 2020.
In sede di accordo di tali proroghe, le parti convenivano di applicare un metodo di ricalcolo dell’EBITDA del 2020, allo scopo di renderlo quanto più possibile omogeneo a quello del 2019: in particolare, il valore del margine operativo lordo del 2019 subiva una riduzione artificiosa proporzionata al numero dei giorni di sospensione dell’attività dell’anno 2020.
Al tempo stesso, veniva convenuta una corrispondente riduzione dell’ammontare del premio di risultato: dal precedente importo di Euro 2.800,00, l’ammontare massimo erogabile del nuovo PDR si assestava sul valore di Euro 2.000,00.
L’applicazione della detassazione al premio nel caso di specie
La società istante ha ritenuto opportuno presentare un’istanza di interpello all’Agenzia delle Entrate in merito alla possibile applicazione della detassazione al PDR a seguito della descritta rideterminazione dei parametri oggetto dell’accordo sindacale, alla luce della quale il confronto tra i distinti indicatori “non viene ad essere effettuato con riferimento all’intero anno, ma con riferimento al minor periodo in cui l’attività è stata svolta (ossia al netto dei giorni di sospensione dell’attività dei punti vendita)”.
Nella sua risposta, l’Agenzia delle Entrate ricorda come la Legge di Bilancio 2016 abbia inteso riservare ai premi di produzione una tassazione agevolata, mediante l’applicazione di un’imposta sostitutiva del 10% (articolo 1, commi da 182 a 189, della Legge n. 208/2015).
A parere dell’Agenzia, la corresponsione di tali premi, nell’intenzione del legislatore, deve essere “legata ad incrementi di produttività, redditività, qualità, efficienza ed innovazione, misurabili e verificabili” sulla base di determinati criteri.
Pertanto, il regime fiscale di favore può “applicarsi sempreché il raggiungimento degli obiettivi incrementali alla base della maturazione del premio […] avvenga successivamente alla stipula del contratto. Pertanto, i criteri di misurazione devono essere determinati con ragionevole anticipo rispetto ad una eventuale produttività futura non ancora realizzatasi“.
Le conclusioni dell’Agenzia delle Entrate
Alla luce dei chiarimenti esposti, l’autorità fiscale ritiene che la “rideterminazione del periodo congruo, dovuta all’emergenza epidemiologica da COVID-19 […] non osti all’applicazione del regime agevolato, dal momento che […] la durata del periodo di maturazione del premio è rimessa all’accordo delle parti”.
L’Agenzia delle Entrate non ravvisa elementi ostativi all’applicazione del regime fiscale agevolato al PDR così come determinato erogato nel caso di specie: in particolare, la “rideterminazione del periodo congruo, dovuta all’emergenza da COVID-19” è un dettaglio attinente al libero accordo tra le parti, che non pregiudica la ratio della detassazione. Il raggiungimento dell’obiettivo incrementale è infatti risultava infatti ancora incerto alla data di sottoscrizione dell’accordo.
La funzione incentivante della normativa non viene dunque compromessa dal ricalcolo dei valori operato dalle parti; pertanto, l’Agenzia ha confermato l’applicabilità della detassazione al PDR nel caso in esame.
L’INPS, con circolare n. 71 del 27 aprile 2021, ha fornito indicazioni circa la legislazione applicabile in caso distacco di lavoratori, recependo quanto disposto dall’Accordo sugli scambi commerciali e la cooperazione tra l’Unione Europea e la Comunità europea dell’energia atomica, da una parte, e il Regno Unito di Gran Bretagna e Irlanda del Nord, dall’altra (c.d. “TCA”).
Il Protocollo sul coordinamento della sicurezza sociale contenuto nel TCA
Il TCA è stato pubblicato nella Gazzetta Ufficiale dell’Unione Europea L. 444/14 del 31 dicembre 2020 ed è entrato in vigore il 1° gennaio 2021.
L’Accordo definisce le condizioni per la collaborazione tra Paesi dell’Unione Europea e il Regno Unito nonché regolamenta determinati settori, tra cui quello della sicurezza sociale. L’Accordo è tutt’ora in attesa di essere ratificato dall’Unione Europea e, per tale motivo, le Parti contraenti hanno deciso di applicarlo in via provvisoria sino al 30 aprile 2021.
All’Accordo è allegato un esteso Protocollo sul coordinamento della sicurezza sociale avente una validità quindicennale e atto a garantire i diritti individuali delle parti contraenti anche in deroga a quanto stabilito dall’Accordo stesso. Ciò allo scopo di evitare il rischio che i lavoratori siano costretti a versare due volte i contributi di sicurezza sociale o che in un dato periodo non siano tutelati da alcuna normativa in materia.
Nello specifico, il Protocollo ammette la fattispecie del distacco prevedendo “per i lavoratori che svolgono l’attività lavorativa in uno Stato diverso da quello in cui ha sede il proprio datore di lavoro (lavoratori dipendenti) o di abituale esercizio dell’attività lavorativa (lavoratori autonomi) la possibilità di restare assoggettati alla legislazione dello Stato di invio per un periodo non superiore a 24 mesi”.
Sul punto va segnalato che dette disposizioni non devono considerarsi direttamente applicabili a tutti gli Stati dell’Unione Europea ma solamente agli Stati che hanno comunicato all’Unione l’intenzione di voler derogare alle disposizioni generali dell’Accordo (c.d. Stati di Categoria A).
La normativa, infatti, raggruppa gli Stati in tre categorie:
L’Italia, per il tramite del Ministero del Lavoro e delle politiche sociale, ha dichiarato di essersi espressa in senso favorevole alla volontà di derogare alle disposizioni generali dell’Accordo e di essere inclusa nell’elenco degli Stati di categoria A che, nei rapporti con il Regno Unito, si avvarranno per quindici anni delle norme sul distacco.
I chiarimenti dell’INPS
Alla luce di quanto sopra, l’INPS ha chiarito che “i cittadini dell’Unione Europea che esercitano un’attività di lavoro subordinato o autonomo nel Regno Unito alla fine del periodo di transizione (31 dicembre 2020) e che sono soggetti alla legislazione di uno Stato membro, mantengono detta condizione fino a che continuino a trovarsi nella fattispecie sopra descritta senza soluzione di continuità”. Viene, pertanto, confermata la validità dei formulari A1 (certificazioni di distacco) rilasciati con data iniziale precedente all’entrata in vigore del TCA e con data finale successiva al 31 dicembre 2020.
Per tali situazioni, alla scadenza del formulario A1, sarà inoltre possibile richiedere un nuovo distacco senza soluzione di continuità (in applicazione delle disposizioni del Titolo II del regolamento (CE) n. 883/2004).
Inoltre, secondo l’INPS i periodi di distacco autorizzati prima del TCA “devono essere considerati per il calcolo del periodo di distacco ininterrotto cosicché la durata complessiva del distacco ininterrotto non potrà superare il limite di 24 mesi, ricomprendendo anche i periodi ante 2021. Eventuali proroghe di distacco autorizzate in data antecedente al 1° gennaio 2021 restano valide sino a naturale scadenza”.
Tuttavia, a differenza della normativa previgente, le disposizioni contenute nel Protocollo non prevedono la possibilità di prolungare la durata di 24 mesi di distacco né tantomeno di stipulare accordi in deroga alle disposizioni generali.
Diverso, invece, è il caso dei lavoratori che esercitano attività lavorativa subordinata o autonoma in due o più Stati.
In base alle disposizioni riportate nel Protocollo, la persona che esercita abitualmente un’attività subordinata in uno o più Stati membri e nel Regno Unito è soggetta:
Sul punto l’INPS, ribandendo il Protocollo quanto già previsto in materia dai regolamenti comunitari, ha chiarito che “le Strutture competenti territoriali possono continuare a rilasciare le certificazioni in materia di legislazione applicabile anche per dette situazioni.”