Con risposta all’interpello n. 314 del 30 aprile 2021 l’Agenzia delle Entrate ha fornito alcuni chiarimenti circa il trattamento fiscale da riservare alle somme corrisposte dal datore di lavoro a titolo di rimborso spese ai propri dipendenti che svolgono la propria attività in modalità agile (c.d. “smart working”).
Il quesito del contribuente
Nel formulare l’interpello, il datore di lavoro istante ha comunicato all’Agenzia delle Entrate la propria intenzione di:
In particolare, il contribuente ha condotto un’analisi dettagliata per verificare il proprio risparmio giornaliero e il costo giornaliero sostenuto dal lavoratore per talune spese, quali: il consumo di energia elettrica per l’utilizzo di un computer e di una lampada e i costi per l’utilizzo dei servizi igienici (acqua e materiale di consumo).
L’analisi effettuata ha portato a ritenere adeguato riconoscere un rimborso spese ad ogni dipendente di Euro 0,50 per ogni giorno di lavoro in smart working.
Alla luce di quanto precede, il contribuente ha chiesto all’Agenzia delle Entrate se sia possibile escludere tale somma giornaliera da imposizione in quanto non costituente reddito di lavoro dipendente.
Il parere dell’Agenzia delle Entrate
Nel formulare il parere sul quesito del contribuente, l’Agenzia delle Entrate fa un excursus normativo e di prassi sulla rilevanza reddituale dei rimborsi spese partendo innanzitutto dal c.d. principio di onnicomprensività del reddito di lavoro dipendente sancito dall’articolo 51, comma 1, del testo unico delle imposte sui redditi, approvato con DPR n. 917/ 1986 (TUIR).
In forza di tale principio costituiscono reddito di lavoro dipendente «tutte le somme e i valori in genere, a qualunque titolo percepiti nel periodo d’imposta, anche sotto forma di erogazioni liberali, in relazione al rapporto di lavoro. Si considerano percepiti nel periodo d’imposta anche le somme e i valori in genere, corrisposti dai datori di lavoro entro il giorno 12 del mese di gennaio del periodo d’imposta successivo a quello cui si riferiscono».
In linea generale, dunque, tutte le somme corrisposte dal datore di lavoro ai propri dipendenti, anche a titolo di rimborso spese, costituiscono reddito di lavoro dipendente e sono, quindi, soggette ad imposizione fiscale e previdenziale.
Tuttavia, l’Agenzia delle Entrate richiama la circolare del 23 dicembre 1997, n. 326 secondo la quale taluni rimborsi possono essere esclusi da imposizione fiscale: ovverosia i rimborsi che riguardano spese, diverse da quelle sostenute per produrre il reddito, di competenza del datore di lavoro ma anticipate dal dipendente. Ad esempio, le spese sostenute per l’acquisto di beni strumentali di piccolo valore (quali la carta della fotocopia o della stampante, le pile della calcolatrice, etc..).
Il principio di onnicomprensività di reddito di lavoro dipendente è stato poi ulteriormente approfondito nella risoluzione 9 settembre 2003, n. 178/E nonché nella successiva del 7 dicembre 2007, n. 357/E.
Con le richiamate risoluzioni, l’Agenzia delle Entrate ha chiarito che non concorrono alla formazione della base imponibile le somme che non costituiscono un arricchimento per il lavoratore (è il caso, ad esempio, degli indennizzi ricevuti a mero titolo di reintegrazione patrimoniale) e “non sono fiscalmente rilevanti, in capo al dipendente, le erogazioni effettuate per un esclusivo interesse del datore di lavoro”.
L’Agenzia delle Entrate si è, infine, soffermata sulla determinazione dell’ammontare della spesa rimborsata al dipendente in modo forfettario.
Al riguardo l’autorità fiscale, richiamando i principi espressi nella risoluzione 20 giugno 2017, n. 74/E, ha affermato che, qualora il legislatore non abbia provveduto ad indicare un criterio ai fini della determinazione della quota esclusa da imposizione (quale ad esempio, quella prevista dall’articolo 51, comma 4, lettera a) del TUIR in materia di auto aziendali concesse ad uso promiscuo ai dipendenti), i costi sostenuti dal dipendente nell’esclusivo interesse del datore di lavoro, devono essere individuati sulla base di elementi oggettivi, documentalmente accertabili. Ciò, al fine di evitare che il relativo rimborso concorra alla determinazione del reddito di lavoro dipendente.
Nell’ipotesi prospettata, il contribuente ha ben rappresentato il criterio per determinare la quota dei costi da rimborsare ai dipendenti in smart working, basandosi su parametri diretti ad individuare costi risparmiati dalla società.
In ragione di tutto quanto precede, l’Agenzia delle Entrate ha ritenuto che le somme erogate dal datore di lavoro ai propri dipendenti per rimborsare i costi sostenuti attraverso le modalità rappresentate non siano imponibili ai fini IRPEF.
La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 8419 del 25 marzo 2021, ha stabilito che, in tema di sospensione della prescrizione, costituisce doloso occultamento del debito contributivo verso l’ente previdenziale la condotta del professionista che omette di compilare la dichiarazione dei redditi nella parte relativa ai proventi della propria attività, utile al calcolo dei contributi per la Gestione Separata INPS.
I fatti di causa
La vicenda affrontata dalla Suprema Corte riguarda un ingegnere, dipendente scolastico, che aveva svolto un incarico extra-scolastico di natura autonoma durante il 2008.
A seguito di una verifica incrociata, l’INPS constatava la sussistenza di un’omissione contributiva, richiedendo il pagamento della contribuzione dovuta per un importo pari a Euro 21.601,10, alla Gestione Separata INPS, a titolo di contributi derivanti dallo svolgimento di attività professionale di natura occasionale nell’anno 2008.
Il Tribunale di primo grado adito dall’INPS respingeva le sue pretese accogliendo l’eccezione di prescrizione avanzata dal contribuente in ragione di una notifica della cartella di pagamento avvenuta oltre il termine di cinque anni previsto dalla legge 335/1995 (articolo 3, comma 9). La sentenza di primo grado veniva confermata dalla Corte d’Appello di Torino che rigettava l’appello dell’Istituto previdenziale.
Nello specifico, la Corte territoriale evidenziava che il provvedimento di iscrizione d’ufficio alla predetta gestione, contenente la richiesta contributiva, fosse intervenuto oltre i cinque anni dalla scadenza del termine di pagamento del saldo dei contributi dovuti alla Gestione Separata per l’anno 2008 (16 giugno 2009), con conseguente estinzione per prescrizione del credito vantato dall’INPS.
La Corte d’appello respingeva, inoltre, l’argomentazione dell’INPS circa la sussistenza di un termine di sospensione della prescrizione, ai sensi dell’art. 2941, n. 8, cod civ., per non avere il contribuente provveduto a compilare, in sede di dichiarazione dei redditi, il quadro RR del Modello Unico in cui vengono dichiarati i redditi derivanti dall’esercizio occasionale di attività professionale.
Avverso la sentenza di secondo grado l’INPS ricorreva in cassazione affidandosi ad un unico motivo di ricorso.
La decisione della Corte di Cassazione
Sul caso specifico, la Corte di Cassazione ha ripreso quanto statuito in pronunce precedenti ribaltando la sentenza dei giudici di merito ed accogliendo il ricorso dell’istituto previdenziale.
In particolare, la Corte di Cassazione ha ribadito il principio secondo cui il giorno dal quale contare i termini della prescrizione estintiva coincide con la data di scadenza dei contributi e non con quella di presentazione della dichiarazione dei redditi, che costituisce una mera dichiarazione di scienza e non un presupposto del credito.
Contestualmente, la Suprema Corte ha affermato che ricorre la causa di sospensione della prescrizione ex art. 2941, n. 8, cod. civ., laddove il debitore abbia posto in essere una condotta dolosa che comporti l’impossibilità di agire del creditore, e non una mera difficoltà di accertamento del credito.
In questo senso, la stessa Corte nell’ordinanza n. 6677 del 2019 ha statuito che “in tema di sospensione della prescrizione, costituisce doloso occultamento del debito contributivo verso l’ente previdenziale, ai fini dell’applicabilità dell’art. 2941, n. 8 c.c., la condotta del professionista che ometta di compilare la dichiarazione dei redditi nella parte relativa ai proventi della propria attività, utile al calcolo dei contributi per la gestione separata (quadro RR del modello)“.
Per le ragioni esposte, la Suprema Corte ha cassato la sentenza di appello e ha accolto il ricorso dell’INPS in quanto la Corte territoriale aveva sì correttamente valutato la decorrenza del dies a quo della prescrizione quinquennale dalla data di scadenza del credito, ma, al contempo non aveva applicato la causa di sospensione prevista dall’art. 2941, n. 8 del codice civile.
Ai sensi del CCNL, nel mese di giugno i datori di lavoro sono tenuti ad erogare i premi aziendali di produttività eventualmente spettanti ai lavoratori in forza che abbiano, nel corso dell’anno precedente, raggiunto i valori di incremento provvigionale pari a 2, 4 o 6 punti, aggiuntivi rispetto ai tassi di inflazione reale.
L’ammontare dei premi è determinato, nelle diverse ipotesi, dalle previsioni del CCNL e in misura fissa (c.d. “una tantum”).
Nel mese di giugno 2021 deve essere erogata ai lavoratori in forza al 18 febbraio 2021 la seconda rata dell’importo dovuto a titolo di “una tantum”, ad integrale copertura del periodo 1° gennaio 2018 – 31 dicembre 2020 ed in proporzione ai mesi di servizio prestati nel periodo di riferimento.
La prima rata è stata corrisposta nel mese di aprile 2021.
L’ammontare dell’importo “una tantum” è quantificato come da tabella seguente.
Liv./Par. |
Importo lordo “Una Tantum” (Euro) |
Q1 |
1.193,57 |
Q2 |
1.048,68 |
A |
1.014,19 |
B1 |
965,89 |
B2 |
924,50 |
B3 |
910,70 |
C1 |
890,00 |
C2 |
876,20 |
D1 |
862,40 |
D2 |
834,81 |
D3 |
821,01 |
E1 |
807,21 |
E2 |
772,71 |
E3 |
758,91 |
F1 |
703,72 |
F2 |
689,92 |
A decorrere dal mese di giugno 2021, la quota a carico del datore di lavoro per la contribuzione al fondo “Astri” è aumentata dello 0,5%.
Dal mese di giugno 2021 è dovuto l’elemento di garanzia retributiva (E.G.R.) fissato, in misura uguale per tutti i lavoratori, in Euro 240,00.
L’importo dell’E.G.R. – da intendersi omnicomprensivo di ogni incidenza su tutti gli istituti legali e contrattuali, compreso il TFR – è corrisposto interamente ai lavoratori in forza dal 1° gennaio al 31 dicembre di ogni anno precedente. Lo stesso è proporzionalmente ridotto in dodicesimi per gli altri lavoratori, considerando come mese intero la frazione di mese superiore a 15 giorni.
L’E.G.R. è, altresì, riproporzionato per i lavoratori a tempo parziale in base al minor orario contrattuale.
L’importo dovrà essere erogato ai lavoratori beneficiari nel mese di giugno di ogni anno.
Come ogni anno a decorrere dal 2019, nel mese di giugno è dovuto ai lavoratori l’importo di Euro 190,00 a titolo di elemento di garanzia retributiva.
Il trattamento viene erogato in unica soluzione ed è corrisposto pro-quota con riferimento a tanti dodicesimi quanti sono stati i mesi di servizio prestati da ciascun lavoratore, anche in modo non consecutivo, nell’anno precedente.
Dal mese di giugno 2021 è dovuto l’elemento di garanzia retributiva fissato, in misura uguale per tutti i lavoratori, al valore di Euro 240,00.
L’importo dell’E.G.R., da intendersi omnicomprensivo di ogni incidenza su tutti gli istituti legali e contrattuali, compreso il TFR, è corrisposto interamente ai lavoratori in forza dal 1° gennaio al 31 dicembre di ogni anno precedente l’erogazione e proporzionalmente ridotto in dodicesimi per gli altri lavoratori, considerando come mese intero la frazione di mese superiore a 15 giorni. È riproporzionato per i lavoratori a tempo parziale in base al minor orario contrattuale.
A decorrere dalla data del 1° giugno 2021, in aggiunta a eventuali altri benefici contrattuali o di legge, sono riconosciute 16 ore di permesso retribuito l’anno ai lavoratori:
Detti permessi possono essere utilizzati ad ore o per intere giornate e si azzerano alla fine di ogni anno legale.
Nel mese di giugno deve essere erogato l’elemento distinto della retribuzione (E.D.R.) pari all’8% della retribuzione tabellare annua vigente, a condizione che si sia già proceduto alla ridefinizione dei trattamenti integrativi aziendali in essere al 1° gennaio 2019 (data di entrata in vigore del CCNL).
Tale elemento viene considerato esclusivamente ai fini del trattamento di fine rapporto. L’E.D.R. aggiuntivo, erogato su base annua, matura da gennaio a dicembre di ogni anno e spetta in proporzione alla durata ed alla tipologia di rapporto di lavoro in essere (full time, part time).
Dal mese di giugno 2021 i lavoratori occupati nell’anno 2020 nelle società del Gruppo FS Italiane, possono utilizzare il “flexible benefit” stanziato a titolo di welfare per un importo complessivo pari ad Euro 400,00.
a) Classificazione del personale
A far data dal 1° giugno 2021 viene eliminata la 1ª categoria, nell’ambito della ridefinizione della classificazione del personale operata dal rinnovo del CCNL. I lavoratori già in forza al 31 maggio 2021 e inquadrati in 1ª categoria sono riclassificati nel livello D1 a decorrere dal 1° giugno 2021.
b) Contributi contrattuali
Con la retribuzione afferente al mese di giugno 2021, i datori di lavoro sono tenuti a trattenere la quota associativa straordinaria di Euro 35,00 dalle competenze spettanti ai lavoratori non iscritti al sindacato che non abbiano, nel frattempo, espresso il proprio diniego a norma del CCNL.
c) Elemento di garanzia retributiva
Ai lavoratori in forza al 1° gennaio di ogni anno nelle aziende prive di contrattazione di secondo livello riguardante il premio di risultato e che nel corso dell’anno precedente abbiano percepito un trattamento retributivo composto esclusivamente da importi retributivi fissati dal CCNL (lavoratori privi di superminimi collettivi o individuali, premi annui o altri importi retributivi comunque soggetti a contribuzione), è corrisposta, a titolo perequativo, con la retribuzione del mese di giugno,
d) Welfare
Nel mese di giugno i datori di lavoro sono tenuti a mettere a disposizione dei lavoratori strumenti di welfare, elencati dal CCNL in via esemplificativa, del valore di Euro 200,00 e da utilizzare entro il 31 maggio dell’anno successivo.
Ai lavoratori in forza al 19 gennaio 2021, i datori di lavoro sono tenuti ad erogare l’importo lordo di Euro 300,00 a titolo di “una tantum”.
Tale ammontare, comprensivo dei riflessi sugli istituti contrattuali diretti e indiretti, non è utile ai fini del computo del T.F.R. e viene corrisposto in due soluzioni:
Nel mese di giugno 2021, i datori di lavoro sono tenuti a mettere a disposizione un emolumento a titolo di “welfare contrattuale” pari a:
in forza che abbiano superato il periodo di prova.
Tali importi dovranno considerarsi distinti e non assorbibili rispetto alle prestazioni di welfare aziendale fruito in sostituzione del premio di risultato e saranno aggiuntivi agli eventuali benefici della stessa natura che fossero già presenti presso il datore di lavoro.
Con decorrenza dal mese di giugno 2021, l’indennità di mensa è aumentata di Euro 1,00 giornalieri e, pertanto, elevata a complessivi Euro 5,00 giornalieri.
L’indennità di mensa non è computabile in nessun istituto contrattuale e di legge ed assorbe fino a concorrenza gli importi già erogati allo stesso titolo in sede aziendale.
La stessa è erogabile anche sotto forma di “ticket restaurant”.
I termini relativi al contributo sindacale sono posticipati come segue:
I datori di lavoro sono tenuti a dare comunicazione ai lavoratori di tale contributo, fornendo agli stessi anche il modulo per il diniego, con i cedolini paga dei mesi di giugno e luglio 2021. Il diniego sarà espresso entro il 10 agosto 2021.
Ai sensi dell’Accordo del 24 novembre 2020, entro il mese di giugno 2021 i datori di lavoro possono ricorrere al TIS (trattamento di integrazione salariale), per una durata massima complessiva di ulteriori dodici settimane comprensive delle settimane ricadenti nel periodo di gennaio 2021.
Il giorno 5 giugno 2021, salvo tacito rinnovo triennale, è in scadenza il CCNL per i Dipendenti da Aziende di Commercio, Grande Distribuzione e Retail Marketing delle imprese aderenti a FEDERDAT.
A decorrere dal 1° giugno 2021 è previsto un aumento dei minimi retributivi tabellari dei seguenti contratti collettivi nazionali di lavoro:
Andrea Di Nino (Employment Consultant – HR Capital) e Elena Cannone (Senior Associate and Compliance Focus Team Leader – De Luca & Partners) parteciperanno in qualità di ospiti-relatori all’evento “HR: TIME TO CHANGE” organizzato dalla Camera di Commercio Italo-Germanica il prossimo 27 maggio.
LOCATION E ORARI
Giovedì 27 maggio 2021
Evento in Videoconferenza
(dalle ore 16.00 alle ore 18.30)
FOCUS
Il 2020 è stato caratterizzato dalla pandemia Covid-19 che ha costretto le aziende a riorganizzare il proprio modo di lavorare. In questo contesto lo smart working ha rappresentato una misura per contrastare il diffondersi del virus negli ambienti di lavoro.
Cosa succederà dopo la pandemia? Lo smart working da eccezione diventerà normalità? Quali sono le sfide che attendono le aziende e il suo management? Quali sono i vantaggi dello smart working?
Sono questi alcuni dei temi che Andrea Di Nino e Elena Cannone affronteranno durante l’evento.
Clicca qui per consultare il programma e per ricevere ulteriori dettagli.
Con la circolare 71 dello scorso 27 aprile, l’INPS ha recepito l’accordo sugli scambi commerciali tra l’Unione Europea, il Regno Unito e l’Irlanda del Nord pubblicato nella Gazzetta Ufficiale dell’Unione Europea del 31 dicembre 2020.
In attesa che sia esaminato dal Parlamento Europeo, i Paesi aderenti hanno convenuto di applicare l’accordo in via provvisoria dal 1° gennaio fino al 30 aprile 2021.
In materia di sicurezza sociale, le disposizioni di coordinamento sono contenute nell’apposito Protocollo che costituisce parte integrante dell’accordo e che ha validità di 15 anni dall’entrata in vigore dell’accordo stesso.
In tema di distacchi, in deroga alle disposizioni generali e quale misura transitoria, il Protocollo prevede che il lavoratore distaccato rimanga soggetto alla legislazione dello Stato nel quale svolge abitualmente la propria attività per un periodo non superiore a 24 mesi.
L’INPS ha precisato che le previsioni in tema di distacco indicate nel Protocollo trovano applicazione solo per gli Stati che avranno comunicato all’UE l’intenzione di voler derogare alle disposizioni generali.
L’articolo 2125 c.c. definisce il patto di non concorrenza come l’accordo atto a limitare “lo svolgimento dell’attività del prestatore di lavoro, per il tempo successivo alla cessazione del contratto”. In quanto tale, il patto si configura come strumento utile a regolare – di comune accordo tra le parti – aspetti fondamentali attinenti alla cessazione del rapporto di lavoro in determinate circostanze (ad esempio, in caso di elevata professionalità e specializzazione del lavoratore). In particolare, il patto in argomento limita la facoltà del lavoratore di svolgere attività professionali in concorrenza con il precedente datore di lavoro per un dato periodo di tempo successivo alla cessazione del rapporto, prolungando di fatto gli obblighi di fedeltà di cui all’art. 2105 c.c. imposti in capo al lavoratore durante lo svolgimento del rapporto di lavoro.
La giurisprudenza, in merito, ha illustrato come “le clausole di non concorrenza sono finalizzate a salvaguardare l’imprenditore da qualsiasi esportazione presso imprese concorrenti del patrimonio immateriale dell’azienda, nei suoi elementi interni (organizzazione tecnica e amministrativa, metodi ed i processi di lavoro, etc.) ed esterni (avviamento, clientela, etc.), trattandosi di un bene che assicura la sua resistenza sul mercato ed il suo successo rispetto alle imprese concorrenti” (Cass. n. 24662/2014).
Il predetto articolo 2125 c.c. enuclea le caratteristiche del patto di non concorrenza in mancanza delle quali il patto deve intendersi nullo e privo di efficacia per le parti, ovverosia:
Continua a leggere la versione integrale dell’articolo su Corriere delle Paghe – Guida al Lavoro de Il Sole 24 Ore.
Il 5 febbraio 2021 è stata siglata l’ipotesi di accordo di rinnovo del CCNL Metalmeccanica Industria, approvata dalle assemblee dei lavoratori così come comunicato dai tre sindacati di categoria lo scorso 16 aprile.
Le parti sindacali e datoriali, in sede di rinnovo, hanno dato una svolta alla contrattazione collettiva del settore, rinnovando profondamente alcuni istituti specifici.
In particolare, sono stati rivisti la classificazione del personale e l’apprendistato professionalizzante, così come i minimi retributivi e il welfare aziendale.
Le principali novità riguardano sicuramente la classificazione del personale e l’apprendistato professionalizzante.
Nel dettaglio, si prevede il passaggio da una classificazione basate sulle “categorie” ad una basata sui “livelli”, con soppressione della “categoria 1”. I lavoratori dovranno essere riclassificati nei nuovi livelli entro il mese di maggio 2021.
L’apprendistato professionalizzante, finora caratterizzato dal sistema del sotto-inquadramento, viene ridefinito sulla base di una progressione retributiva graduale dell’apprendista durante il percorso formativo.
Con la circolare n. 63 dello scorso 14 aprile, l’INPS ha fornito i primi chiarimenti in merito al diritto alla fruizione del congedo introdotto dal decreto legge 30/2021 a favore dei genitori lavoratori del settore privato.
Il congedo, coperto da contribuzione figurativa, è rivolto ai lavoratori con figli conviventi minori di anni 14 o con disabilità grave affetti da Covid o in quarantena da contatto o, eventualmente, con attività didattica in presenza sospesa.
Per i periodi di astensione fruiti è riconosciuta dall’INPS un’indennità pari al 50% della retribuzione.
Il congedo può essere fruito nelle sole ipotesi in cui la prestazione lavorativa non possa essere svolta in modalità agile e in alternativa all’altro genitore convivente, o anche non convivente in caso di figlio con disabilità grave.
Inoltre, per i genitori con figli di età compresa tra i 14 ed i 16 anni, è previsto il diritto di astenersi dal lavoro senza però corresponsione di retribuzione o indennità, né riconoscimento di contribuzione figurativa, con divieto di licenziamento e diritto alla conservazione del posto di lavoro.
La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 701 del 18 gennaio 2021, si è espressa in merito al potere di licenziamento esercitabile da parte del datore di lavoro, evidenziando come lo stesso risulti limitato qualora il lavoratore abbia, in precedenza, aderito ad un accordo sindacale nel quale richiede di essere adibito ad una mansione inferiore allo scopo di salvaguardare il posto di lavoro.
I fatti di causa hanno visto un lavoratore licenziato a seguito dell’esito di una procedura di mobilità, ai sensi della Legge n. 223/1991. In particolare, il lavoratore – inquadrato nella categoria di impiegato – era stato collocato in CIGS per soppressione della funzione cui era addetto, manifestando in seguito la propria disponibilità a svolgere mansioni di livello inferiore, anche con diminuzione della retribuzione percepita.
Tale disponibilità veniva respinta da parte del datore di lavoro, avviando la mobilità per 15 dipendenti e, in seguito, stipulando l’accordo sindacale utile a definirne i criteri. Da ultimo, il lavoratore veniva licenziato con efficacia differita al termine del periodo di cassa integrazione.
A seguito dell’impugnazione del licenziamento da parte del dipendente, la stessa veniva respinta nei primi due gradi di giudizio, in cui si riteneva come dalla disponibilità dello stesso allo svolgimento di mansioni inferiori non scaturisse alcun obbligo per il datore di lavoro circa l’accoglimento dell’istanza, bensì solo la possibilità di giungere ad un accordo.
La Suprema Corte, ricevuto il ricorso del lavoratore, ha osservato come una clausola dell’accordo sindacale sottoscritto presso il datore di lavoro abbia previsto – in applicazione del comma 11 dell’art. 4 della Legge n. 223/1991 – che “gli accordi stipulati nel corso delle procedure di cui al presente articolo, che prevedano il riassorbimento totale o parziale dei lavoratori ritenuti eccedenti, possono stabilire […] la loro assegnazione a mansioni diverse da quelle svolte”.
La clausola dell’accordo prevedeva dunque la possibilità per i dipendenti in esubero di chiedere di essere adibiti a mansioni e qualifiche inferiori, onde evitare il licenziamento. A dire della Corte di Cassazione, la ratio della norma di cui l’accordo sindacale è espressione impone un vincolo obbligatorio al datore di lavoro, trattandosi per un verso di un rimedio per evitare il licenziamento e, per l’altro, di una deroga non vincolante per i lavoratori, i quali potrebbero rifiutare la dequalificazione.
A prevalere è, infatti, “l’interesse del lavoratore a mantenere il posto di lavoro”: in tal senso, la Suprema Corte osserva inoltre come gli accordi sindacali che stabiliscono i criteri di scelta dei lavoratori da collocare in mobilità “non appartengono alla categoria dei contratti collettivi normativi, con la conseguenza che gli stessi incidono direttamente non già sulla posizione del lavoratore, ma su quella del datore di lavoro, il quale nella scelta dei dipendenti da porre in mobilità deve applicare i criteri concordati”.
L’accordo assume dunque natura vincolante, essendo preordinato alla tutela dell’interesse generale e della salvaguardia dei livelli occupazionali.
I giudici di legittimità, pertanto, accolgono il ricorso del lavoratore, giungendo alla conclusione che l’interesse primario tutelato dall’art. 4 comma 11 della Legge n. 223/1991 sia quella della conservazione del posto di lavoro e non quella della stabilità delle condizioni economiche contrattuali.
Fonte: Sintesi
L’Agenzia delle Entrate, con il provvedimento n. 60353 del 3 marzo 2021, ha fornito le modalità operative con cui i lavoratori, dipendenti e autonomi, beneficiari del regime speciale per i c.d. impatriati, potranno optare per la proroga dell’agevolazione fiscale, ai sensi dell’articolo 1, comma 50, della Legge 178 del 30 dicembre 2020 (la “Legge di Bilancio 2021”), per ulteriori cinque anni.
Il quadro normativo
L’articolo 1, comma 50, della Legge di Bilancio 2021 – integrando l’articolo 5, del D.L. n. 34/2019 – ha previsto la possibilità per lavoratori impatriati di optare per la proroga dell’agevolazione fiscale per ulteriori cinque periodi d’imposta. Per tutta la durata della proroga i redditi di lavoro dipendente (o a questi assimilati) e i redditi da lavoro autonomo saranno sottoposti, come vedremo meglio nel prosieguo, a tassazione ridotta.
Tale facoltà di opzione è riconosciuta, a decorrere dal 1° gennaio 2021, ai lavoratori già iscritti all’Anagrafe degli italiani residenti all’estero (AIRE), o che siano stati cittadini d Stati membri dell’Unione Europea. Questi devono (i) aver trasferito la residenza fiscale in Italia prima del 30 aprile 2019 e (ii) al 31 dicembre 2019 risultare beneficiari del regime impositivo speciale previsto dall’articolo 16 del D.Lgs. n. 147/2015 per i lavoratori impatriati.
Ai sensi della richiamata disposizione, la possibilità di godere del regime fiscale agevolato in esame spetta ai lavoratori che:
In entrambe le fattispecie elencate, il reddito da lavoro dipendente (anche a questi assimilati) o autonomo prodotto in Italia risulterà imponibile soltanto per il 50% del suo ammontare. L’imponibilità è ulteriormente ridotta al 10% qualora il lavoratore abbia almeno tre figli minorenni o a carico.
L’opzione, fermo restando il rispetto dei suddetti requisiti soggettivi, potrà essere esercitata a condizione che il lavoratore provveda al versamento di un importo pari al:
La Legge di Bilancio 2021 ha subordinato la definizione delle modalità di esercizio dell’opzione in argomento ad un provvedimento dell’Agenzia delle Entrate che è stato emanato lo scorso 3 marzo.
Gli adempimenti del lavoratore e del sostituto d’imposta
In ottemperanza alle disposizioni della Legge di Bilancio 2021, il provvedimento in commento descrive gli adempimenti che devono essere posti in essere dal lavoratore (in particolare, dal lavoratore dipendente) e dal sostituto d’imposta.
In primo luogo, il lavoratore in possesso di tutti i requisiti per esercitare l’opzione deve versare l’importo di cui al precedente paragrafo:
In aggiunta a quanto precede, i lavoratori dipendenti che intendono beneficiare della proroga del regime agevolato dovranno comunicare al datore di lavoro di aver esercitato l’opzione presentando una richiesta debitamente sottoscritta e recante:
Il datore di lavoro, a seguito dell’opzione della proroga del regime agevolato effettuata dal lavoratore dipendente, opererà le ritenute fiscali sulle minori somme e sui valori imponibili corrisposti dal periodo di paga successivo al ricevimento della richiesta sottoscritta dal lavoratore dipendente.
A fine anno o alla cessazione del rapporto di lavoro, il medesimo datore di lavoro dovrà effettuare il conguaglio tra le ritenute operate e l’imposta dovuta sull’ammontare complessivo degli emolumenti, ridotto in conformità all’agevolazione fiscale di cui è beneficiario il dipendente “impatriato”, corrisposto a partire dal 1° gennaio dell’anno di riferimento.
La Legge n. 178/2020 (c.d. “Legge di Bilancio 2021”) ha revisionato il regime del c.d. “contratto di espansione” nell’ottica di favorirne il ricorso in costanza dell’attuale stato di emergenza sanitaria.
Tale istituto è stato introdotto dal D. Lgs. n. 148/2015 e in seguito rivisto dal D. L. n. 34/2019 (c.d. “Decreto crescita”) quale ammortizzatore sociale sostitutivo del “contratto di solidarietà espansiva”, dismesso dal 30 giugno 2019.
Funzione e requisiti
Il contratto di espansione è stato introdotto in via sperimentale per il solo biennio 2019 – 2020 ed è rivolto alle imprese con più di 1.000 dipendenti (intesi come media nei 6 mesi precedenti nell’ambito dell’impresa), interessate da fasi di reindustrializzazione e riorganizzazione recanti la revisioni dei processi aziendali e, conseguentemente, l’adeguamento delle competenze professionali dei lavoratori, prevedendo l’assunzione di nuove professionalità.
Il contratto di espansione intende sostenere l’innovazione tecnologica all’interno del ciclo produttivo e il datore di lavoro che intende avvalersene procede all’inserimento nell’organico aziendale di nuovi lavoratori e, contestualmente,
A livello generale, nel contratto di espansione il datore di lavoro è tenuto a dare evidenza dei seguenti dettagli:
Le novità apportate dalla Legge di bilancio 2021
La struttura del contratto di espansione è stata ulteriormente rivisitata ad opera del comma 349 dell’articolo 1 della Legge di bilancio 2021, intervenuto modificando l’articolo 41 del D. Lgs. n. 148/2015.
Nel dettaglio, è stata estesa per tutto il 2021 la possibilità per i datori di lavoro di avviare una procedura di consultazione finalizzata alla stipula del contratto di espansione con il Ministero del Lavoro e delle politiche sociali e con le associazioni sindacali. Come detto, originariamente, tale possibilità era prevista in via sperimentale esclusivamente per gli anni 2019 e 2020.
Esclusivamente per il 2021, il limite minimo di unità lavorative in organico dei datori di lavoro beneficiari è abbassato ad almeno 500 unità, in luogo delle almeno 1.000 unità previste in prima battuta dalla norma, calcolate complessivamente nelle ipotesi di aggregazione di imprese stabile con un’unica finalità produttiva o di servizi. Tale soglia dimensionale è ulteriormente ridotta a 250 unità limitatamente ai casi di ricorso al contratto di espansione attivato nell’ambito dell’accompagnamento a pensione.
In detta ultima fattispecie, la norma prevede che il datore di lavoro debba riconoscere, a fronte della risoluzione del rapporto di lavoro e fino al raggiungimento della prima decorrenza utile del trattamento pensionistico, un’indennità mensile commisurata al trattamento pensionistico lordo maturato dal lavoratore al momento della cessazione del rapporto di lavoro, così come determinato dall’INPS. Qualora la prima decorrenza utile della pensione sia quella prevista per la pensione anticipata, il datore di lavoro sarà, altresì, tenuto a versare i contributi previdenziali utili al conseguimento del diritto. Il datore di lavoro, allo scopo di dare attuazione al contratto di espansione, è obbligato a
Con la nota n. 553 del 2 aprile 2021, l’Ispettorato Nazionale del Lavoro (INL) ha fornito indicazioni in merito all’applicazione delle norme a tutela delle lavoratrici madri e della prole contenute negli articoli 6, 7 e 17 del D.Lgs. 151/2001 (il “Decreto”). Secondo detti articoli le lavoratrici madri, durante la gravidanza e nei sette mesi successivi, non possono essere adibite al «trasporto e al sollevamento di pesi, nonché ai lavori pericolosi, faticosi ed insalubri», indicati negli allegati A e B al Decreto.
Normativa di riferimento
Le disposizioni previste dagli articoli 6, 7 e 17 del Decreto sono preposte alla tutela della salute della lavoratrice madre e della prole attraverso l’adozione di misure di protezione in relazione alle condizioni di lavoro e alle mansioni alle quali la lavoratrice stessa è adibita.
Nello specifico, l’articolo 6 del Decreto abilita gli organi di vigilanza ad autorizzare l’interdizione dal lavoro laddove non sia possibile adibire la lavoratrice ad altre mansioni.
L’art. 7, comma 1, del Decreto dispone il divieto di adibire la lavoratrice al trasporto e al sollevamento di pesi, nonché a lavori pericolosi, faticosi ed insalubri elencati specificamente negli allegati A e B del Decreto stesso.
L’articolo 17, infine, abilita l’INL ad autorizzare l’interdizione dal lavoro quando le condizioni di lavoro o ambientali sono ritenute pregiudizievoli alla salute della donna e del bambino: tale precisazione è stata addotta dal Ministero del Lavoro con la nota prot. n. 37/0011588 del 20 luglio 2015.
Ai fini dell’adozione dei provvedimenti di tutela, a prescindere dalla valutazione del rischio precisata nel DVR (Documento Valutazione dei Rischi), si ritiene sufficiente la mera constatazione della adibizione della lavoratrice madre a mansioni di trasporto e al sollevamento di pesi.
In tal senso propende sia l’interpretazione della giurisprudenza di merito, con l’ordinanza del Tribunale di Perugia del 20 novembre 2020, sia il Ministero del Lavoro, con l’interpello n. 28/2008 e la nota n.37 del 29 aprile 2013.
Nello specifico l’interpello n. 28/2008 ha chiarito che “ai sensi del primo comma dell’art. 7 del menzionato D.Lgs. n. 151/2001 vige il divieto generalizzato di adibire le (…) lavoratrici al trasporto ed al sollevamento pesi, ed inoltre la valutazione sostanziale e diretta delle condizioni di lavoro e dell’organizzazione aziendale svolta dagli organi di vigilanza può prescindere dal documento di valutazione dei rischi che comunque l’Ispettore ha facoltà di esaminare”.
Invece, nella nota prot. n. 37/0007553 del 29 aprile 2013, il Ministero del Lavoro ha precisato come “la valutazione del rischio fatta dal datore di lavoro costituisce il presupposto sulla base del quale deve essere emesso il provvedimento di interdizione fuori dai casi di cui all’articolo 7, commi 1 e 2”.
Pertanto, l’adibizione della lavoratrice al sollevamento dei pesi, qualora il relativo rischio non sia stato espressamente valutato nel DVR, costituirebbe comunque condizione sufficiente per il riconoscimento della sua tutela. Ciò, con la conseguente emanazione del provvedimento di interdizione da parte dell’amministrazione competente, ferma restando una valutazione circa l’impossibilità di adibizione ad altre mansioni.
I chiarimenti dell’INL
L’esigenza da parte dell’INL di redigere la nota in commento deriva proprio dalla sopra citata ordinanza del Tribunale di Perugia. Nello specifico, l’INL ha precisato come, ai fini dell’erogazione dell’indennità a favore della lavoratrice interdetta, un provvedimento di interdizione a seguito di pronuncia giurisdizionale dichiarativa del diritto all’astensione non sia sufficiente.
Sarà sempre necessario che l’Ispettorato territorialmente competente emetta il relativo provvedimento amministrativo di interdizione a cui, poi, dovrà far seguito la richiesta della lavoratrice nei confronti dell’INPS circa l’erogazione della relativa indennità sostitutiva (cfr. art. 1, D.L. 663/1969, convertito in Legge 33/1980).
Con la nota in commento, l’INL – richiamando la circolare INPS n. 69/2016 – ha inoltre precisato, in riferimento alle ipotesi in cui il parto avvenga in data anticipata rispetto a quella presunta, che i giorni antecedenti al parto non goduti a titolo di astensione obbligatoria si aggiungono al periodo di congedo obbligatorio di maternità da fruire dopo il parto.
Da ciò ne deriva che il provvedimento di interdizione adottato dall’Ispettorato territorialmente competente dovrà indicare la data effettiva del parto e far decorrere da essa i sette mesi di interdizione post partum aggiungendo, ai predetti sette mesi, i giorni non goduti a causa del parto prematuro e avendo cura di richiamare in proposito la circolare INPS sopra riportata.
La Corte Costituzionale, con sentenza n. 59 depositata il 1° aprile 2021, ha dichiarato incostituzionale l’art. 18, comma 7, secondo periodo, della Legge 300/1970 (c.d. Statuto dei Lavoratori), così come modificato dall’art. 1, comma 42, lett. b) della Legge 92/2012 (c.d. Legge Fornero), poiché lesivo del principio di uguaglianza di cui all’art. 3 della Costituzione.
I fatti di causa
Con ordinanza del 7 febbraio 2020, il Tribunale di Ravenna, in funzione di giudice del lavoro, ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 18, comma 7, secondo periodo della L. 300/1970 nella “parte in cui prevede che, in ipotesi in cui il giudice accerti la manifesta insussistenza di un fatto posto a fondamento di un licenziamento per giustificato motivo oggettivo, “possa” e non “debba” applicare la tutela di cui al comma 4 dell’art. 18 (reintegra)”.
Secondo il Tribunale di Ravenna, il carattere facoltativo della reintegra di un lavoratore illegittimamente licenziato per giustificato motivo oggettivo lede il principio di uguaglianza (art. 3 cost.) in quanto “(…) determinerebbe un’arbitraria disparità di trattamento tra situazioni del tutto identiche, ossia il licenziamento per giusta causa e il licenziamento per giustificato motivo oggettivo dei quali sia accertata in giudizio l’infondatezza”.
Pertanto, a parere del Tribunale, la Corte Costituzionale dovrebbe ripristinare, in ordine all’obbligatorietà della reintegrazione, un trattamento omogeneo tra le due tipologie di licenziamento. Secondo il Tribunale di Ravenna, anche nel caso di licenziamento per motivi economici la reintegra dovrebbe essere obbligatoria, una volta che venga accertata l’insussistenza manifesta del fatto, e non lasciare la decisione ad una valutazione discrezionale del giudice.
La decisione della Corte costituzionale
La Corte costituzionale, nell’aderire alla tesi del Tribunale di Ravenna, precisa che il “carattere meramente facoltativo della reintegrazione rivela, anzitutto, una disarmonia interna al peculiare sistema delineato dalla legge 92/2012 e viola il principio di eguaglianza”.
In un sistema che, per consapevole scelta del legislatore, attribuisce rilievo al presupposto comune dell’insussistenza del fatto e a questo presupposto collega l’applicabilità della tutela reintegratoria, “si rivela disarmonico e lesivo del principio di eguaglianza il carattere facoltativo del rimedio della reintegrazione per i soli licenziamenti economici, a fronte di una inconsistenza manifesta della giustificazione addotta rispetto e del ricorrere di un vizio di più accentuata gravità rispetto all’insussistenza pura e semplice del fatto”.
La Consulta prosegue richiamando la giurisprudenza maggioritaria formatasi in materia che riconosce il potere discrezionale del giudice di negare la reintegra in caso di manifesta insussistenza del fatto posto alla base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo se “la tutela reitegratoria sia, al momento di adozione del provvedimento giudiziale, sostanzialmente incompatibile con la struttura organizzativa” dell’impresa.
Sul punto la Corte Costituzionale si è espressa ritenendo “manifestatamente irragionevole la scelta di riconnettere a fattori contingenti, e comunque determinati dalle scelte del responsabile dell’illecito (l’imprenditore), conseguenze di notevole portata che si riverberano sull’alternativa fra una più incisiva tutela reintegratoria o una meramente indennitaria”.
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Alla luce delle predette considerazioni la Consulta ha dichiarato costituzionalmente illegittimo l’art. 18, comma 7, secondo periodo, della L. 300/70, così come modificato dalla Riforma Fornero, nella parte in cui prevede che il giudice, quando accerta la manifesta insussistenza del fatto posto alla base del licenziamento economico, “può altresì applicare” – invece che “applica altresì” – la tutela reintegra.
L’ipotesi di Accordo di Rinnovo del CCNL stipulato il 5 febbraio 2021 dispone che le aziende, mediante affissione in bacheca da effettuarsi dal 29 marzo e al 15 maggio 2021, comunichino ai lavoratori non iscritti a FIM, FIOM e UILM la richiesta di una quota associativa straordinaria di Euro 35,00 da trattenere sulla retribuzione afferente al mese di giugno 2021. Richiesta motivata dal rinnovo contrattuale.
Le aziende dovranno distribuire un apposito modulo che consenta al lavoratore di accettare o rifiutare la richiesta in questione da riconsegnarsi alle stesse entro il 15 maggio 2021.
Il CCNL ha previsto in favore dei dirigenti medici dipendenti delle strutture sanitarie, socio-sanitarie e socio-assistenziali di diritto privato aderenti ad ARIS, assunti prima del 1° gennaio 2020 ed ancora in servizio alla data del successivo 7 ottobre, il riconoscimento di un importo netto a titolo di una tantum pari ad Euro 2.500,00. Questo importo ha la finalità di riparare il disagio derivante dalla ritardata sottoscrizione del CCNL stesso.
L’importo verrà corrisposto in 5 tranches di pari importo, con le retribuzioni dal mese di gennaio 2021 al mese di maggio 2021.
Ai lavoratori in servizio al 24 febbraio 2021 deve essere riconosciuto un importo lordo onnicomprensivo una tantum, fissato nella misura di Euro 300,00, da erogarsi in tre distinte soluzioni; ovverosia:
Il CCNL dispone che debba procedersi ad una quantificazione proporzionalmente ridotta su base mensile delle suddette tranches, per i lavoratori assunti dopo il 24 febbraio 2021 e per coloro che cesseranno il servizio nel corso del triennio 2021-2023.
In mancanza di un accordo sul premio di risultato stipulato entro il 30 aprile 2021, i datori di lavoro sono tenuti ad erogare entro il 31 maggio2021 gli importi indicati nella seguente tabella:
Livello |
Euro |
A, B |
186 |
1, 2, 3 |
158 |
4, 5 |
140 |
6S, 6, 7 |
112 |
Entro il 31 maggio 2021 dovrà essere erogato un importo annuo pari ad Euro 400,00 ai dipendenti di aziende che non abbiano stipulato accordi di secondo livello alla data del 31 dicembre 2020 e sempreché essi non percepiscano trattamenti economici, anche forfettari, individuali o collettivi, in aggiunta al trattamento economico già fissato dal CCNL. Tale corrispettivo spetterà anche per ogni successiva annualità, alla medesima scadenza.
Laddove l’azienda non proceda alla contrattazione di secondo livello ed eroghi importi a titolo individuale o collettivo unilateralmente, gli stessi saranno riallineati al valore dell’elemento di garanzia retributiva stabilita se inferiori.
In caso di importo inferiore derivante dall’applicazione di un accordo aziendale stipulato sulla contrattazione di secondo livello, il limite dell’elemento di garanzia retributiva non trova applicazione.
Il trattamento viene erogato in unica soluzione con le competenze del mese di maggio ed è corrisposto pro quota con riferimento a tanti dodicesimi quanti sono stati i mesi di servizio prestati dal lavoratore, anche in modo non consecutivo, nell’anno precedente. La prestazione di lavoro superiore a 15 giorni sarà considerata, a questi effetti, come mese intero. Detto importo sarà riproporzionato per i lavoratori a tempo parziale in funzione del normale orario di lavoro.
A decorrere dal 1° maggio 2021 è previsto un aumento dei minimi retributivi tabellari dei seguenti contratti collettivi nazionali di lavoro:
Con la circolare n. 56 dello scorso 12 aprile, l’INPS ha fornito i primi chiarimenti in merito all’esonero contributivo per i datori di lavoro che assumono a tempo indeterminato o trasformano da tempo determinato a tempo indeterminato giovani under 36 secondo le disposizioni della Legge di Bilancio 2021.
L’ammontare dell’esonero è pari al 100% della contribuzione previdenziale a carico dei datori di lavoro, nel limite massimo di importo pari a 6.000 euro annui e per un massimo 36 mesi.
Per le aziende con un’unità produttiva ubicata nelle regioni di Abruzzo, Molise, Campania, Basilicata, Puglia, Sicilia, Campania e Sardegna l’esonero spetta per un massimo di 48 mesi.
Inoltre, per beneficiarne, i datori di lavoro non solo devono essere in regola con i versamenti contributivi ma non devono aver proceduto, nei sei mesi precedenti l’assunzione incentivata e nei successivi nove mesi, a licenziamenti individuali per giustificato motivo oggettivo e a licenziamenti collettivi.
La Corte di Cassazione, con ordinanza n. 1759 del 27 gennaio 2021, è intervenuta nuovamente sul tema della doppia contribuzione a carico dei soggetti che sono, nello stesso momento, soci e amministratori di società a responsabilità limitata avente un oggetto sociale classificabile nel settore terziario.
In particolare, in conformità alla prassi INPS e agli orientamenti giurisprudenziali prevalenti dal 2011, il socio-amministratore è obbligato al duplice versamento dei contributi: (i) presso la Gestione Commercianti INPS, in qualità di socio, per il reddito d’impresa prodotto dalla società e (ii) presso la Gestione Separata INPS per il reddito derivante dall’eventuale compenso percepito per la carica di amministratore.
Con l’ordinanza in commento, la Suprema Corte non nega il principio generale della doppia iscrizione del socio-amministratore alle predette gestioni INPS, bensì enuclea l’assunto in forza del quale può essere esclusa l’iscrizione del socio alla Gestione Commercianti.
L’impugnazione giudiziale della cartella di pagamento notificata dall’INPS
La Corte d’Appello di Bologna confermava la sentenza di primo grado di accoglimento dell’opposizione proposta dal presidente del consiglio di amministrazione e socio di una S.r.l. avverso una cartella di pagamento notificata dall’INPS. In particolare, detta cartella riguardava i contributi dovuti alla Gestione Commercianti per l’attività svolta dallo stesso in qualità di socio che, in quanto amministratore con compenso, risultava altresì iscritto alla Gestione Separata INPS.
La Corte d’Appello, ritenuta ammissibile la doppia iscrizione, affermava che ai fini dell’iscrizione alla Gestione Commercianti INPS l’attività svolta in qualità di socio doveva essere diversa e distinta da quella di amministratore.
Nel caso di specie, l’attività di supervisione e la posizione di referente per i clienti e i fornitori o l’assunzione di un dipendente da parte del presidente del consiglio di amministrazione, rientravano nelle normali incombenze dell’amministratore.
Avverso la sentenza di secondo grado l’INPS ricorreva in cassazione affidandosi ad unico articolato motivo di ricorso.
L’illegittimità dell’operato dell’INPS secondo la Corte di Cassazione
La Suprema Corte ha, innanzitutto, osservato che il comma 208 dell’articolo 1, della legge 662/1996 non ha introdotto alcun principio di alternatività tra l’iscrizione alla Gestione Commercianti e l’iscrizione alla Gestione Separata di cui all’art. 2, comma 26, Legge n. 335/95.
La Corte ha infatti ribadito che, a seguito dell’interpretazione autentica della suddetta norma operata dall’articolo 12, comma 11, del Decreto Legge 78/2010, convertito nella Legge 122/2010, il legislatore ha escluso la regola dell’unicità dell’iscrizione. Tale unicità “resta possibile (e presso la gestione dell’attività prevalente) solo per le attività autonome esercitate in forma d’impresa dai commercianti, dagli artigiani e dai coltivatori diretti”.
La Corte ha, altresì, evidenziato che “in caso di esercizio di attività in forma d’impresa ad opera di commercianti o artigiani ovvero di coltivatori diretti contemporaneamente all’esercizio di attività autonoma per la quale è obbligatoriamente prevista l’iscrizione alla gestione previdenziale separata di cui all’art. 2, comma 26, legge 335/1995, non opera l’unificazione della contribuzione sulla base del parametro dell’attività prevalente, quale prevista dall’art. 1, comma 208, legge n. 662 del 1996“.
Secondo la Corte di Cassazione, il suddetto principio della doppia contribuzione, richiamato dalla giurisprudenza, ha prodigato la prassi dell’INPS di procedere con l’iscrizione d’ufficio del socio-amministratore di società a responsabilità limitata: (i) presso la Gestione Commercianti INPS, per il reddito d’impresa prodotto in qualità di socio e (ii) presso la Gestione Separata INPS per il reddito derivante dal compenso percepito per la carica di amministratore.
Con l’ordinanza in commento, gli ermellini non hanno messo in discussione il principio della doppia contribuzione, bensì la prassi operata d’ufficio dall’istituto previdenziale. In particolare, i giudici hanno stabilito che “lo svolgimento […] della sola attività di amministratore, senza alcuna partecipazione diretta all’attività materiale ed esecutiva dell’azienda” non può essere sufficiente a giustificare l’iscrizione alla Gestione Commercianti, e che “né, di per sé, la qualifica di socio di una società di capitali (con responsabilità limitata al capitale sottoscritto e con partecipazione alla realizzazione dello scopo sociale esclusivamente tramite il conferimento di tale capitale) può essere significativa dell’esercizio di diretta attività commerciale nell’azienda”.
Nel caso di specie, lo svolgimento di attività di supervisione, la funzione di referente per i clienti e fornitori o l’assunzione di un dipendente rientrano tutte nelle competenze dell’amministratore e non anche in quelle di socio.
Sulla base di tali considerazioni, la Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso dell’INPS confermando l’illegittimità dell’iscrizione d’ufficio del socio-amministratore alla Gestione Commercianti non avendo l’istituto previdenziale provato la “partecipazione diretta all’attività materiale ed esecutiva dell’azienda” per iscrivere il socio alla predetta gestione.
Conclusioni
Con l’ordinanza in commento, la Suprema Corte mette in discussione l’iscrizione d’ufficio del socio-amministratore di s.r.l. alla Gestione Commercianti. Secondo la Cassazione, è onere dell’INPS dimostrare la partecipazione diretta all’attività materiale ed esecutiva dell’azienda che genererà l’obbligo di iscrivere il socio-amministratore di S.r.l. alla Gestione Commercianti.
Tale partecipazione diretta del socio nell’attività aziendale è facilmente dimostrabile dall’istituto nel caso in cui, ad esempio, la società eserciti una attività d’impresa con oggetto sociale classificabile nel settore terziario senza avvalersi dell’apporto di personale dipendente o collaboratori.
Fonte: Agendadigitale.eu
Lo scorso 23 marzo è entrato in vigore il “Decreto Sostegni” che ha introdotto ulteriori misure a sostegno per le imprese, a seguito del protrarsi dell’emergenza epidemiologica da COVID-19.
Sono stati, infatti, prorogati i trattamenti di integrazione salariali. In particolare, sono state introdotte ulteriori 13 settimane di Cassa Integrazione ordinaria collocabili nel periodo dal 1° aprile al 30 giugno 2021.
Per quanto riguarda invece i trattamenti di integrazione salariale FIS e Cassa Integrazione in deroga, sono state introdotte ulteriori 28 settimane collocabili nel periodo dal 1° aprile al 31 dicembre 2021.
Per le nuove settimane di integrazione salariale non è dovuto alcun contributo addizionale all’INPS.
Le domande di accesso ai trattamenti dovranno essere presentate entro la fine del mese successivo a quello in cui ha avuto inizio la sospensione o la riduzione dell’attività.
La Corte di Cassazione, con l’ordinanza n. 2164 depositata il 1° febbraio 2021, ha affrontato il tema del diritto del lavoratore al risarcimento del “danno pensionistico” causato dall’omissione contributiva da parte del datore di lavoro e della eventuale responsabilità dell’INPS chiamata in giudizio a rispondere del danno.
I fatti di causa
Nel caso di specie la Corte d’Appello di Genova aveva accolto l’impugnazione proposta da una lavoratrice nei confronti dell’INPS e del proprio datore di lavoro (chiamato in causa dall’INPS) avverso la sentenza di primo grado. Sentenza con cui era stata rigettata la domanda proposta dalla stessa al fine di ottenere direttamente dall’istituto previdenziale la regolarizzazione della propria posizione assicurativa, con accredito dei contributi omessi dal datore di lavoro relativamente al periodo dal 1° gennaio 2007 al 14 ottobre 2010.
La Corte d’Appello, ritenuta provata la sussistenza del rapporto di lavoro nel periodo contestato, (i) aveva applicato il disposto dell’art. 2116 cod. civ., accertando il diritto della lavoratrice ad ottenere dall’INPS la regolarizzazione della propria posizione assicurativa con accredito dei contributi omessi dal datore di lavoro – e ormai prescritti – e (ii) aveva dichiarato inammissibile la domanda proposta dall’istituto di recuperare i contributi dal datore di lavoro.
Avverso la sentenza di secondo grado l’INPS ricorreva in cassazione affidandosi a due motivi di ricorso.
La decisione della Corte di Cassazione
Innanzitutto, la Suprema Corte rammenta che l’obbligazione contributiva ha come soggetto attivo l’ente assicuratore, ovverosia l’INPS, e come soggetto passivo il datore di lavoro, debitore dei contributi anche per la parte a carico del prestatore di lavoro, salvo il diritto di rivalsa (articolo 2115 cod. civ.) oppure per l’intero in ipotesi di pagamento tardivo o parziale (articolo 23, Legge 218/1952).
In virtù di quanto precede, secondo la Corte, il lavoratore non può chiedere all’INPS di sostituirsi al datore di lavoro nel pagamento dei contributi che rimane il diretto responsabile.
Quale rimedio all’omissione contributiva del datore di lavoro, ormai prescritta nel caso di specie, il lavoratore può:
Analoga facoltà è prevista per il datore di lavoro che abbia omesso di versare contributi per l’assicurazione obbligatoria invalidità, vecchiaia e superstiti e non possa più versarli per sopravvenuta prescrizione. Il datore di lavoro, a parere della Corte di Cassazione, può richiedere una rendita vitalizia reversibile pari alla pensione o quota di pensione adeguata dell’assicurazione obbligatoria che spetterebbe al lavoratore dipendente in relazione ai contributi omessi, mediante il versamento della corrispondente riserva matematica.
Tuttavia, la Corte di Cassazione ribadisce che, in caso di prescrizione del credito contributivo per il decorso del termine di 5 anni (come nel caso di specie), l’azione risarcitoria del lavoratore è giustificata una volta che si siano realizzati i requisiti per l’accesso alla prestazione previdenziale. Ciò in quanto “tale situazione determina l’attualizzarsi per il lavoratore del danno patrimoniale risarcibile, consistente nella perdita totale del trattamento pensionistico ovvero nella percezione di un trattamento inferiore a quello altrimenti spettante”.
Solo in quel caso, infatti, si configura un danno patrimoniale risarcibile che si esplica nella perdita totale del trattamento pensionistico o nella percezione in misura inferiore. E l’INPS è responsabile per il mancato pagamento del datore di lavoro solo quando, nonostante la tempestiva comunicazione, non provveda a riscuotere quanto dovuto. Sul punto, la Corte di Cassazione statuisce infatti che “ove l’Istituto previdenziale non abbia provveduto a conseguire dal datore di lavoro i contributi omessi, nonostante sia venuto tempestivamente a conoscenza dell’omissione, lo stesso è tenuto a provvedere alla regolarizzazione della posizione assicurativa del lavoratore, che ne abbia fatto richiesta”.
Pertanto, in caso di omissione contributiva per la quale sia già decorso il termine prescrizionale di legge, il lavoratore non può agire direttamente nei confronti dell’istituto richiedendogli di sostituirsi al datore di lavoro nel pagamento dei contributi. L’obbligazione contributiva vede quale soggetto passivo il datore di lavoro, residuando in favore del lavoratore soltanto l’azione di risarcimento del danno ex art. 2116 cod. civ. e la facoltà di chiedere all’ente la costituzione della rendita ai sensi dell’art. 13 della Legge 1338/1962.
Il Fondo Nuove Competenze (“FNC”) è stato istituito dal D.L. 34/2020 (“Decreto Rilancio”) e rifinanziato, in seguito, dal D.L. 104/2020 (“Decreto Agosto”) allo scopo di sostenere economicamente i datori di lavoro che attivano percorsi formativi finalizzati all’acquisizione di nuove o maggiori competenze da parte del proprio personale dipendente. I datori di lavoro beneficiari possono vedersi rimborsato il costo delle ore di lavoro destinate a percorsi formativi, comprensivo degli oneri contributivi di natura previdenziale e assistenziale.
I requisiti richiesti ai datori di lavoro beneficiari
L’accesso al FNC è riservato a tutti i datori di lavoro privati che abbiano sottoscritto accordi collettivi di rimodulazione dell’orario di lavoro a livello aziendale o territoriale con le organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative sul territorio nazionale ovvero con le loro rappresentanze sindacali operative in azienda. Tali accordi devono individuare:
Inizialmente, la scadenza per la stipula degli accordi e la presentazione della relativa domanda all’ANPAL era fissata al 31 dicembre 2020: tale termine è stato esteso al 30 giugno 2021 ad opera del Decreto interministeriale emanato il 22 gennaio 2021 dal Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali di concerto con il Ministero dell’Economia e delle Finanze, ripreso dal Decreto direttoriale ANPAL n. 69 del 17 febbraio scorso.
Le modalità di accesso al fondo
Le domande di accesso al FNC possono essere presentate dal 18 gennaio scorso sul portale istituzionale dell’ANPAL e devono essere inviate entro la menzionata scadenza del 30 giugno: al fine di inviare l’istanza, il datore di lavoro deve accedere tramite il proprio SPID o, in alternativa, delegando un intermediario.
All’interno del portale dell’ANPAL, il rappresentante legale dell’azienda – o il suo delegato – è tenuto a fornire le varie informazioni richieste al fine della presentazione dell’istanza. Nello specifico, è necessario inserire i dati anagrafici del datore di lavoro, i dati quantitativi attinenti al progetto di formazione da avviare e il dettaglio dei documenti obbligatori richiesti, quali (i) l’accordo collettivo di rimodulazione dell’orario di lavoro sottoscritto con le rappresentanze sindacali, (ii) il progetto di sviluppo delle competenze dei dipendenti e (iii) l’elenco dei dipendenti coinvolti.
In caso di società facenti parte del medesimo gruppo, è possibile presentare un’istanza cumulativa da parte della società capogruppo.
L’istanza sarà esaminata dall’ANPAL secondo il criterio cronologico di presentazione e si riterrà accolta per silenzio assenso decorsi 10 giorni dal suo invio. Il datore di lavoro istante potrà consultare lo stato di lavorazione della stessa direttamente sul portale web dell’ANPAL.
Qualora la documentazione aziendale risultasse incompleta, l’ANPAL invierà all’istante una richiesta di integrazioni e/o chiarimenti rispetto alla documentazione ricevuta. Questi, entro e non oltre 10 giorni di calendario dalla ricezione della richiesta dell’ANPAL, dovrà provvedere a trasmettere quanto richiesto, pena la sospensione dell’istanza e la decadenza dell’ordine cronologico di presentazione. L’istanza sospesa per decorrenza del termine di 10 giorni sarà riattivata al momento dell’eventuale e successiva presentazione della documentazione necessaria.
La realizzazione del progetto formativo e l’erogazione del contributo
In generale, i percorsi formativi – della durata massima di 250 ore per lavoratore – dovranno essere realizzati entro 90 giorni dall’approvazione della domanda inviata all’ANPAL.
Il contributo verrà corrisposto al datore di lavoro – fino ad esaurimento fondi – dall’INPS, in due distinte soluzioni: un’anticipazione pari al 70% del contributo globale e un secondo versamento a saldo. Quest’ultimo potrà essere richiesto dal datore di lavoro nei 40 giorni successivi al completamento delle attività di sviluppo delle competenze da parte dei dipendenti.
Il Tribunale di Roma, con ordinanza del 26 febbraio 2021, ha affermato che il divieto di licenziamento per motivi economici, introdotto dalla normativa emergenziale, deve ritenersi applicabile anche ai dirigenti.
I fatti di causa
I fatti di causa riguardano un lavoratore, inquadrato come Dirigente ai sensi del Contratto Collettivo Nazionale dei Dirigenti del settore Terziario, licenziato in data 23 luglio 2020 per giustificato motivo oggettivo, in ragione di una riorganizzazione aziendale conseguente al calo di attività causata dall’emergenza sanitaria da Covid-19.
Il Dirigente impugnava il licenziamento invocando la violazione dell’art. 46 del Decreto Legge 18/2020, convertito nella Legge 27/2020, e dell’art. 81 del Decreto Legge 34/2020, convertito nella Legge 77/2020, i quali prevedevano il divieto di licenziamento per giustificato motivo, ai sensi dell’art. 3 della Legge 604/1966, a far data dal 23 febbraio 2020.
La decisione del Tribunale
Il Tribunale di Roma, nell’accogliere il ricorso del Dirigente, afferma che la ratio alla base del blocco dei licenziamenti di cui alla normativa emergenziale è di “ordine pubblico” e di “solidarietà sociale”. Essa consiste nell’“evitare in via provvisoria che le conseguenze economiche della pandemia si traducano nella soppressione di posti di lavoro”, scongiurando, pertanto, che i danni dalla stessa causati gravino sui lavoratori. La menzionata esigenza di tutela “è comune ai dirigenti che, anzi, sono più esposti a tale rischio stante la maggior elasticità del loro regime contrattualcollettivo di preservazione dai licenziamenti arbitrari (c.d. giustificatezza) rispetto a quello posto dall’art. 3 della L. 604/66”.
A detta del giudice adito, pertanto, l’estensione del divieto in argomento si basa in primis sul principio di “non disparità di trattamento”: l’esclusione della categoria dei dirigenti dalla tutela emergenziale introdotta dal legislatore nella fase pandemica sarebbe, infatti, irragionevole in quanto in aperto contrasto con l’articolo 3 della Costituzione secondo cui “tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge”.
Inoltre, il giudice basa la propria pronuncia sul concetto di “giustificato motivo oggettivo” di cui all’art. 3 della L. 604/66 che, a suo parere, deve intendersi comprensivo della nozione di “giustificatezza oggettiva” (inerente i dirigenti) che con il licenziamento per giustificato motivo oggettivo ne “condivide sostanzialmente la natura”. Ciò consente di ritenere, sempre secondo il giudice, che il riferimento fatto dalla normativa sul blocco dei licenziamenti all’art. 3 della L. 604/66 “miri a identificare la natura della ragione impassibile di essere posta a fondamento del recesso, e non a delimitare l’ambito soggettivo di applicazione del divieto”.
Su tali presupposti, il Tribunale di Roma dichiara nel caso di specie nullo il licenziamento intimato al dirigente disponendo:
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L’ordinanza in commento giunge, dunque, alla conclusione secondo la quale le norme sul divieto di licenziamento per giustificato motivo oggettivo introdotte dal legislatore durante il periodo di emergenza sanitaria da Covid–19 sono estendibili anche ai dirigenti nonostante quest’ultimi non rientrino nel campo di applicazione della Legge 604/66 richiamata dalla normativa emergenziale.