L’Ispettorato Nazionale del Lavoro, con la nota n. 1057/2020, ha fornito chiarimenti in merito alle condizioni di ingresso e di soggiorno in Italia nell’ambito dei trasferimenti intra-societari (cd. “Intra Corporate Transfer” o “ICT”) dei lavoratori extra-comunitari, contemplati dall’art. 27-quinquies del D.Lgs. n. 286/1998, anche detto “Testo Unico Immigrazione”.
Nello specifico, tale disposizione, introdotta nel nostro ordinamento dal D.Lgs. n. 253/2016 in recepimento della direttiva 2014/66/UE, disciplina l’ingresso in Italia di dirigenti, lavoratori specializzati o in formazione per svolgervi la propria prestazione di lavoro subordinato a seguito di trasferimenti intra-societari, al di fuori delle quote previste dall’art. 3, comma 4, del Testo Unico Immigrazione.
La definizione di distacco intra-societario
L’intervento dell’Ispettorato è, anzitutto, volto a fare chiarezza sul concetto stesso di trasferimento intra-societario, definito come “il distacco temporaneo di uno straniero da parte di un’azienda stabilita in un Paese terzo presso l’entità ospitante, intesa quale:
Pertanto, viene chiarito come l’entità ospitante possa coincidere (i) con la sede, la filiale o la rappresentanza situata in Italia e appartenente all’impresa da cui il lavoratore dipende, così come, alternativamente, (ii) con un’impresa appartenente al medesimo gruppo, posto che per il lavoratore è richiesta un’anzianità aziendale minima presso la distaccante.
Le condizioni poste a carico dell’entità ospitante
La nota rilasciata dall’Ispettorato prosegue ricordando come l’ordinamento prevede a carico dell’entità ospitante o distaccataria italiana “una serie di condizioni, in mancanza delle quali il nulla osta è rifiutato o revocato, tra le quali l’impegno ad adempiere agli obblighi previdenziali e assistenziali previsti dalla normativa italiana, salvo che non vi siano accordi di sicurezza sociale con il Paese di appartenenza (comma 5, lett. h)”.
Resta in ogni caso ferma, secondo l’Ispettorato, la necessità di effettuare gli accertamenti sulle capacità economiche tanto del soggetto ospitante quanto della casa madre, allo scopo di verificare che quest’ultima sia in grado di sopperire ad un’eventuale incapacità economica della filiale in merito agli obblighi di natura previdenziale e assistenziale. A riguardo, l’Ispettorato stesso menziona l’acquisizione del bilancio consolidato di gruppo, tradotto in lingua italiana, come documento utile all’asseverazione della presenza di adeguate risorse economiche in capo al gruppo medesimo.
La finalità sottesa è quella di escludere che la società ospitante sia stata creata “al solo scopo di agevolare l’ingresso in Italia di lavoratori soggetti al trasferimento intra-societario”, ovvero che sia soggetta a procedura di liquidazione o sia stata liquidata o non svolga alcuna attività economica concreta.
L’Ispettorato ricorda come il comma 15 dell’articolo 27-quinquies introduca “specifici casi di diniego o revoca del nulla osta, ad esempio quando l’entità ospitante è stata istituita al solo scopo di agevolare l’ingresso dei lavoratori di cui si tratta”, prevedendo l’espletamento dei necessari controlli da parte degli Ispettorati territoriali in sede di rilascio del parere di competenza nell’ambito dello Sportello Unico dell’Immigrazione.
Si tratta di verifiche che non possono riferirsi alla sola analisi dei dati documentali di fatturato della distaccataria italiana, ma che devono essere estese, ove ritenuto necessario, agli interventi ispettivi utili ad accertare “lo svolgimento effettivo delle attività economiche” da parte della stessa.
La Corte di Cassazione, con ordinanza n. 23434 del 26 ottobre 2020, ha chiarito che non integra l’abuso del diritto alla fruizione dei permessi ex legge 104/1992 e non viola i principi di correttezza e buona fede, sia nei confronti del datore di lavoro che dell’ente assicurativo, la partecipazione ad un corso formativo sulla malattia di cui è affetto il soggetto al quale si presta assistenza.
I fatti
La Corte di Appello di Trento, ribaltando la sentenza di primo grado, aveva dichiarato illegittimo il licenziamento per giusta causa intimato ad una lavoratrice per abuso dei permessi previsti dall’articolo 33 della legge n.104/1992.
Secondo la Corte d’Appello la società ex datrice di lavoro non aveva raggiunto la prova dell’abuso dei 3 permessi, poiché dalle prove testimoniali e dalla relazione dell’agenzia investigativa dalla stessa incaricata era emerso che “la lavoratrice si era recata a casa del padre affetto da Alzheimer per un numero di ore ben oltre eccedenti il suo ordinario orario di lavoro e, comunque, prevalente, volendo escludere la sua partecipazione ad un incontro di formazione in materia di Alzheimer tenutosi presso un centro universitario”.
Avverso la sentenza di secondo grado la società soccombente ricorreva in cassazione affidandosi a due motivi di ricorso.
La decisione della Corte di Cassazione
La Suprema Corte ha, innanzitutto, osservato che la Corte d’appello nel formulare la sua decisione si è uniformata alla giurisprudenza secondo la quale il permesso ex art. 3 della Legge 604/1992 è riconosciuto al lavoratore “in ragione dell’assistenza al disabile e in relazione causale diretta con essa, senza che il dato testuale e la ratio della norma ne consentano l’utilizzo in funzione meramente compensativa delle energie impiegate dal dipendente per detta assistenza”. Pertanto, “il comportamento del prestatore di lavoro subordinato che non si avvalga del permesso previsto dal citato articolo 33, in coerenza con la funzione dello stesso, ossia l’assistenza del familiare disabile, integra un abuso del diritto in quanto priva il datore di lavoro della prestazione lavorativa in violazione dell’affidamento riposto nel dipendente ed integra, nei confronti dell’Ente di previdenza erogatore del trattamento economico, un’indebita percezione dell’indennità ed uno sviamento dell’intervento assistenziale”.
Tuttavia, “(…) l’assistenza al disabile (…) può essere prestata con modalità e forme diverse, anche attraverso lo svolgimento di incombenze amministrative, pratiche o di qualsiasi genere, purché nell’interesse del familiare assistito” (cfr ordinanza della Corte di Cassazione n. 23891/2018).
Sulla base di tali considerazioni, la Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso della società, confermando l’illegittimità del licenziamento intimato alla lavoratrice, avendo la stessa, nei giorni di fruizione dei permessi, frequentato un corso per accudire meglio il padre.
A decorrere dal mese di gennaio 2021 il versamento a carico delle imprese al Fondo di Assistenza Sanitaria Integrativa (Filcoop) di cui al CCNL per i lavoratori dipendenti da aziende cooperative di trasformazione di prodotti agricoli e zootecnici e lavorazioni prodotti alimentari, sarà pari a 2 Euro.
La decorrenza del contributo, inizialmente prevista per il 1° giugno 2020, è stata posticipata a seguito del verbale di accordo stipulato tra le parti sociali in data 16 giugno 2020.
a. Elemento di garanzia retributiva
A decorrere dal 1° gennaio 2021, ai dipendenti di aziende che non abbiano stipulato accordi di secondo livello alla data del 31 dicembre 2020, viene riconosciuto un importo annuo, in cifra fissa pari a 400 Euro lordi, da corrispondersi entro il 31 maggio 2021 e così per ogni anno successivo.
La previsione trova applicazione qualora i lavoratori coinvolti non percepiscano trattamenti economici, anche forfettari, individuali o collettivi, in aggiunta al trattamento economico già fissato dal CCNL in esame.
Laddove l’azienda non proceda alla contrattazione di secondo livello ed eroghi importi a titolo individuale o collettivo unilateralmente, gli stessi saranno riallineati al valore dell’elemento di garanzia retributiva stabilita, se inferiori alla cifra di 400 Euro.
Si segnala che tale emolumento è erogato in un’unica soluzione con le competenze del mese di maggio di ogni anno ed è corrisposto pro quota con riferimento a tanti dodicesimi quanti sono stati i mesi di servizio prestati dal lavoratore, anche in modo non consecutivo, nell’anno precedente.
b. Mensa
Dal mese di gennaio 2021 il valore del ticket restaurant è incrementato da 6 Euro a 7 Euro per ogni giornata di effettiva prestazione, fermo restando eventuali trattamenti di miglior favore già in uso presso il datore di lavoro.
c. Previdenza complementare
A decorrere dal mese di gennaio 2021 è previsto un aumento pari allo 0,5% a carico del datore di lavoro del “contributo mensile contrattuale”, attualmente pari all’1%, da versare per tutti i lavoratori con contratto a tempo indeterminato o di apprendistato.
Il “contributo mensile contrattuale” a carico del datore di lavoro sarà dunque pari all’1,5%. Tale contribuzione è aggiuntiva rispetto al contributo ordinario attualmente previsto a carico del datore di lavoro, anche per i lavoratori iscritti su base volontaria, per i quali il contributo aziendale è pari al 3,5%.
Il CCNL Centri elaborazioni dati (Assoced, LAIT) prevede che, a decorrere dalla data di attribuzione della categoria di Quadro, venga mensilmente corrisposta ai lavoratori interessati un’indennità di funzione.
Questa indennità è pari, dal mese di gennaio 2021, a:
Con riferimento alle imprese che applicano il CCNL Chimici farmaceutici (piccola industria), dal mese di gennaio 2021 la contribuzione dovuta a FONDAPI a titolo di previdenza complementare è incrementata dello 0,10%, raggiungendo l’aliquota complessiva dell’1,60%.
La contribuzione dovuta dalle imprese che applicano il CCNL Gomma plastica (piccola industria), sempre dal mese di gennaio 2021 e a titolo di previdenza complementare, è incrementata dello 0,10%.
Dal mese di gennaio 2021 la contribuzione dovuta a titolo di previdenza complementare a carico delle aziende che applicano il CCNL Vetro è incrementata anch’essa dello 0,10%.
Nel CCNL Elettrici le parti sociali hanno determinato in 210 Euro il valore del premio di risultato da destinare nell’anno 2021 ad incrementi di produttività, redditività e competitività.
Tale quota ha cadenza annuale ed è stata determinata considerando anche i riflessi sugli istituti retributivi diretti ed indiretti, di origine legale o contrattuale, risultando quindi comprensiva degli stessi.
A decorrere dal 1° gennaio 2021 tutti i lavoratori inquadrati al livello I dell’area produzione, con posizione professionale di addetti alla conduzione di macchine di produzione o all’esecuzione di operazioni di montaggio ed assemblaggio di prodotti, saranno inquadrati al “livello H” dopo il superamento del periodo di prova.
A decorrere dal 1° gennaio 2021 i contributi di assistenza contrattuale sono dovuti nella misura oraria di 0,06 Euro, di cui 0,02 Euro a carico del lavoratore.
Tale contribuzione sarà utile al funzionamento degli organismi paritetici al servizio dei lavoratori e dei datori di lavoro e riscossa dalle parti stipulanti.
a. Maternità
Dal mese di gennaio 2021 è riconosciuto, per il congedo di maternità e paternità di cui all’art. 32 del D.Lgs. 151/2001, un trattamento di assistenza aggiuntivo a quello previsto dalla legge, fino ad una integrazione a carico dell’azienda pari al 30% della retribuzione per i primi tre mesi di calendario di congedo immediatamente successivi al termine del congedo obbligatorio. Inoltre, per lo stesso periodo la contribuzione ad ARCO per gli iscritti sarà versta al 100%.
In occasione della nascita del figlio, e nei casi di adozione e/o di affidamento, sono riconosciuti al padre 7 giorni di congedo di paternità retribuito, a cui potranno essere aggiunti con le stesse modalità, ulteriori 2 giorni in casi di comprovate ed oggettive circostanze collegate all’evento.
b. Previdenza complementare
Con decorrenza dal 1° gennaio 2021, le aliquote a carico delle aziende da destinarsi al fondo ARCO sono del 2,20%, rimane invariata l’aliquota a carico degli iscritti pari all’1,30%.
Per le aziende che applicano il CCNL Pubblici esercizi (Confcommercio) ed il CCNL pubblici esercizi, ristoranti e turismo (FIPE, ANGEM), a decorrere dal mese di gennaio 2021, il costo del vitto per singolo dipendente aumenterà di 0,20 Euro, raggiungendo i complessivi 1,65 Euro.
Tale costo verrà trattenuto ai lavoratori che fruiranno del servizio di somministrazione dei pasti dai rispettivi datori di lavoro.
Lo stesso vale per le aziende che applicano il CCNL Stabilimenti balneari (Confcommercio).
Le parti sociali hanno concordato di introdurre l’istituto dell’assistenza sanitaria integrativa, esclusivamente per i lavoratori assunti a tempo indeterminato e con decorrenza dal mese di gennaio 2021.
Per la copertura dell’assistenza sanitaria integrativa è dovuto un contributo annuale per ciascun lavoratore non inferiore a 60 Euro a carico dell’impresa, fatte salve condizioni di miglior favore attuate dai datori di lavoro.
A decorrere dal 1° gennaio 2021 è previsto un aumento dei minimi retributivi tabellari dei seguenti contratti collettivi nazionali di lavoro:
L’Agenzia delle Entrate, mediante la risposta a interpello n. 550/2020 pubblicata lo scorso 23 novembre, ha fornito il proprio orientamento, nell’ambito del tema più generale della detassazione del premio di risultato, in merito al raggiungimento degli obiettivi incrementali posti dal datore di lavoro come condizione per l’erogazione del premio di risultato detassabile e, più specificamente, del momento di verifica del conseguimento degli stessi.
Circa il particolare regime fiscale agevolato che regola l’erogazione del premio di risultato, l’autorità fiscale dapprima ricorda che tale modalità è stata introdotta dalla Legge 28 dicembre 2015, n. 208 (Legge di bilancio 2016), articolo 1, commi da 182 a 189, che ha introdotto a regime, a partire dal periodo di imposta 2016, una modalità di tassazione agevolata consistente nell’applicazione di un’imposta sostitutiva dell’IRPEF e delle relative addizionali del 10% ai “premi di risultato di ammontare variabile, la cui corresponsione sia legata ad incrementi di produttività, redditività, qualità, efficienza ed innovazione, misurabili e verificabili sulla base dei criteri definiti con il decreto di cui al comma 188”, ovvero con il decreto emanato dal Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali in data 25 marzo 2016.
Al riguardo, la norma ha stabilito, tra l’altro, che i contratti collettivi di II livello o gli accordi sindacali debbano prevedere criteri di misurazione e verifica degli incrementi di produttività, redditività, qualità, efficienza ed innovazione, individuando alcuni criteri di misurazione degli indici incrementali ai quali devono essere commisurati i premi. Al termine del periodo previsto dal contratto (cd. “periodo congruo”), ovvero di maturazione del premio, è quindi necessario che risulti verificato “un incremento di uno degli obiettivi indicati, costituente il presupposto per l’applicazione del regime agevolato”.
Pertanto, l’Agenzia delle Entrate sottolinea come non sia sufficiente che l’obiettivo prefissato dall’accordo aziendale sia raggiunto, dal momento che è, altresì, necessario che il risultato conseguito dall’azienda risulti “incrementale rispetto al risultato antecedente l’inizio del periodo di maturazione del premio”: il requisito dell’incrementalità, rilevabile dal “confronto tra il valore dell’obiettivo registrato all’inizio del periodo congruo e quello risultante al termine dello stesso”, costituisce dunque una caratteristica essenziale dell’agevolazione.
I fatti descritti nell’istanza di interpello hanno visto, in particolare, un datore di lavoro applicare la tassazione ordinaria al premio di risultato erogato ai dipendenti, nonostante, fosse in precedenza stato stipulato un regolare accordo aziendale volto a normare il regime agevolato del bonus e a determinare i necessari criteri di misurazione degli indicatori utili. Nel dettaglio, l’istante – dipendente dell’impresa in questione – ha fatto presente all’Agenzia delle Entrate che il contratto integrativo di II livello è stato stipulato in data 1° ottobre 2019, individuando nella somma dell’utile lordo di due società appartenenti al gruppo il parametro per la misurazione dell’obiettivo di redditività da raggiungere nell’esercizio 2019, al fine dell’erogazione del premio di produttività variabile e all’applicazione del beneficio fiscale previsto nell’anno successivo.
L’Istante ha rappresentato come tale premio, erogato con la busta paga di luglio 2020, abbia subito la tassazione ordinaria nel presupposto che alla data di sottoscrizione del contratto integrativo di secondo livello (1° ottobre 2019) non sussistessero dubbi nel raggiungimento dell’obiettivo di redditività misurabile con il parametro individuato nel contratto, ovvero che l’utile lordo complessivo al 31 dicembre 2019 sarebbe risultato incrementale rispetto a quello registrato nel 2018. In merito, il lavoratore ha ritenuto che le aziende, alla stipula del contratto integrativo, potessero essere a conoscenza esclusivamente dei dati relativi al primo semestre 2019, che evidenziavano un utile lordo ancora molto al di sotto dell’obiettivo annuale posto dall’accordo aziendale. Pertanto, l’Istante ha ritenuto che le due aziende, al momento della stipula dell’accordo, potessero presumere che il dato del 2019 sarebbe stato superiore a quello del 2018 solo in via meramente prospettica. Da ciò discenderebbe, dunque, il diritto alla detassazione delle somme erogate dall’impresa.
Circa i fatti in esame, l’Agenzia delle Entrate ha esposto come la normativa – oltre che la copiosa prassi che ne è derivata nel tempo – abbia previsto come i criteri di misurazione debbano “essere determinati con ragionevole anticipo rispetto ad una eventuale produttività futura non ancora realizzatasi”. Tale circostanza è da intendersi in senso assoluto e non come necessariamente ancorata ad uno specifico riferimento temporale.
In generale, l’Agenzia delle Entrate ha ritenuto che il regime fiscale agevolato risulti applicabile soltanto qualora nell’accordo aziendale venga attestato che il raggiungimento dell’obiettivo incrementale sia effettivamente incerto alla data della sua sottoscrizione, ad esempio perché l’andamento del parametro adottato in sede di contrattazione risulti suscettibile di variabilità.
Qualora questo non avvenga, ad esempio perché la società – come nel caso di specie – ha desunto l’andamento dei risultati economici grazie ad affidabili indicatori “atti a valutare l’andamento dei risultati economici conseguiti fino a un determinato momento e a ricavarne proiezioni puntate alla scadenza dell’esercizio interessato”, allora l’applicazione dell’agevolazione fiscale sul premio di risultato erogato non risulterà legittima, in quanto mancante del requisito dell’incertezza del conseguimento dell’obiettivo aziendale al momento della stipula dell’accordo.
L’Agenzia delle Entrate conclude sostenendo come dette valutazioni, ancorché connotate da natura predittiva e influenzabili da fattori esterni o interni, siano comunque state attentamente stimate dal sostituto d’imposta, che quindi – agendo correttamente – non ha applicato la tassazione del 10% all’importo del premio di risultato erogato.
Con l’approssimarsi delle operazioni di conguaglio di fine anno, il trattamento fiscale delle polizze stipulate dai datori di lavoro a copertura del rischio di contrarre il COVID-19 in favore dei propri dipendenti, rappresenta un tema di grande attualità.
Sul punto si ricorda che è intervenuta l’Agenzia delle Entrate con la circolare n.11/E/2020.
L’Agenzia ha chiarito che i premi versati dal datore di lavoro in favore della generalità o di categorie di dipendenti, a seguito della stipula di polizze a copertura del rischio di contrarre il COVID-19, rientrano nel campo di applicazione dell’articolo 51 del TUIR. Pertanto, tali premi non concorrono alla formazione del reddito imponibile da lavoro dipendente dei lavoratori interessati.
L’INPS, con la circolare n. 133 del 24 novembre scorso, ha fornito le indicazioni operative in merito all’esonero contributivo in caso di nuove assunzioni con contratto a tempo indeterminato effettuate dal 15 agosto 2020 al successivo 31 dicembre.
L’esonero trova applicazione anche in caso di trasformazione di contratto a termine in contratto a tempo indeterminato effettuata nel medesimo arco temporale. Dall’applicazione dello sgravio sono esclusi i contratti di apprendistato e i contratti di lavoro domestico.
L’esonero ha una durata massima di sei mesi decorrenti dall’assunzione o dalla trasformazione a tempo indeterminato. E’ pari alla contribuzione INPS a carico del datore di lavoro, entro un importo massimo di 8.060,00 euro su base annua. Restano esclusi premi INAIL ed eventuali contributi minori.
La fruizione del beneficio è subordinata alla presentazione di un’apposita istanza telematica all’INPS da parte del datore di lavoro.
Il Tribunale di Udine, con sentenza n. 106/2020, ha affermato che il datore di lavoro indotto a licenziare un proprio dipendente per assenza ingiustificata ha il diritto di trattenere dalle competenze di fine rapporto allo stesso spettanti l’importo versato all’INPS a titolo di ticket di licenziamento (c.d. “ticket NASPI”).
I fatti di causa
Nel caso di specie un lavoratore manifestava oralmente al legale rappresentate della società datrice di lavoro la propria intenzione di rassegnare le dimissioni a causa dei problemi di salute del padre, chiedendo, tuttavia, di essere formalmente licenziato al fine di poter beneficiare dell’indennità mensile di disoccupazione, c.d. NASPI.
Dinanzi al rifiuto, il lavoratore minacciava di assentarsi dal lavoro. Ciò nonostante, la società decideva di accordargli un prolungato periodo di ferie per assistere il padre. A conclusione del periodo di ferie il lavoratore non si presentava sul posto di lavoro senza giustificare in alcun modo la propria assenza nonostante i ripetuti solleciti.
A fronte del protrarsi dell’assenza ingiustificata, dopo aver esperito la procedura disciplinare di cui all’art. 7 della Legge 300/1970, la società licenziava il lavoratore per giusta causa. Non solo. La società procedeva anche a trattenere dalle spettanze di fine rapporto l’ammontare del ticket di licenziamento dovuto all’INPS nonché altre somme a titolo di risarcimento dei danni subiti per la mancata prestazione lavorativa.
Il lavoratore proponeva ricorso per decreto ingiuntivo per vedersi restituire tutte le somme trattenute atteso che la decisione unilaterale di recedere dal rapporto di lavoro sarebbe stata presa da datore di lavoro.
La società si opponeva al decreto ingiuntivo emesso a suo carico affinché venisse revocato. Resisteva il lavoratore chiedendo il rigetto del ricorso presentato dalla stessa e, per l’effetto, la conferma del decreto in questione.
La decisione del Tribunale
A parere del Tribunale è stato adeguatamente provato, nell’ambito dell’attività istruttoria espletata, che la decisione di porre fine al rapporto di lavoro è stata presa unilateralmente dal lavoratore. Questi – a fronte del rifiuto dell’azienda di procedere con il licenziamento richiesto – si è, infatti, assentato deliberatamente per farsi licenziare.
Pertanto, secondo il Tribunale “le spese sostenute da (ndr dalla società) per dare (involontariamente) corso alla decisione di recesso assunta dal lavoratore non possono che essere addossate a quest’ultimo e, nello specifico, il (ndr il lavoratore) sarà tenuto a corrispondere alla ricorrente le somme da questa spese a titolo di c.d ticket licenziamento. Il c.d. ticket di licenziamento è infatti un onere che la (ndr la società) ha dovuto sopportare esclusivamente perché il (ndr il lavoratore), anziché dimettersi, senza costi per l’azienda, l’ha deliberatamente posta nella necessità di risolvere il rapporto lavorativo”.
In considerazione di quanto sopra, il Tribunale ha revocato il decreto ingiuntivo emesso a carico della società opponente e ha accertato, per quel che ci interessa, la sussistenza del credito della stessa per l’ammontare del ticket di licenziamento, essendo appunto il recesso imputabile alla condotta omissiva del dipendente.
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La sentenza in commento (allo stato non si rinvengono precedenti) giunge in sostanza alla conclusione secondo la quale il datore di lavoro, indotto a licenziare un lavoratore per assenza ingiustificata, ha diritto al risarcimento del danno subito e corrispondente all’importo del ticket NASPI versato all’INPS.
La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 24145 del 30 ottobre 2020, ha affermato che, in caso di cessione di azienda, il lavoratore ha diritto alla conservazione dell’elemento distinto della retribuzione previsto dal contratto individuale di lavoro.
I fatti di causa
La Corte di Appello di Catanzaro aveva accolto il ricorso proposto da un lavoratore, con qualifica di anestesista, transitato alle dipendenze di un’altra società per effetto di una cessione d’azienda.
Il lavoratore, in particolare, aveva rivendicato il proprio diritto alla conservazione dell’elemento distinto della retribuzione (denominato “EDAPR”) attribuitogli dalla cedente e goduto per oltre un decennio (dal 4 gennaio 2001 al 27 maggio 2011), chiedendo, per l’effetto, la condanna della cessionaria al pagamento delle somme dovute a tale titolo nel periodo dal 27 maggio 2011 al 31 gennaio 2015.
Sul punto, la Corte distrettuale aveva ritenuto che (i) al lavoratore fosse stato riconosciuto l’importo a titolo di “EDAPR” come compenso forfettario per prestazioni di lavoro straordinario eventualmente svolte (c.d. straordinario forfettizzato”) e (ii) lo stesso si fosse trasformato, nel corso del rapporto di lavoro, in un superminimo costituente parte integrante della retribuzione del lavoratore.
La Corte territoriale aveva dunque riconosciuto il diritto alla conservazione dell’elemento distinto della retribuzione e dell’anzianità di servizio maturata dal lavoratore come una corretta applicazione dell’art. 2112 cod. civ., allorquando dispone che il dipendente della cedente conserva tutti i diritti che derivano dall’originario rapporto, escludendo, al contempo, l’impossibilità di richiamare il comma 4 del medesimo articolo a fondamento di modifiche unilaterali del rapporto da parte della società cessionaria.
Avverso la decisione emessa dai giudici di merito la società soccombente ricorreva alla Corte di Cassazione.
La decisione della Corte di Cassazione
La Corte di Cassazione, nel rigettare il ricorso della società, ha ribadito le peculiarità contenute nell’art. 2112 cod. civ. affermando testualmente che esso “assicura a favore dei dipendenti dell’imprenditore che trasferisce l’azienda o un suo ramo la garanzia della conservazione di tutti i diritti derivanti dal rapporto lavorativo con l’impresa cedente e mira alla tutela dei crediti già maturati dal lavoratore ed al rispetto dei trattamenti in vigore”.
La Suprema Corte ha, inoltre, evidenziato come nel caso di specie il compenso sia stato correttamente identificato come un elemento della retribuzione funzionale alla prestazione nel suo complesso e che “il compenso forfettario della prestazione resa oltre l’orario normale di lavoro accordato al lavoratore per lungo tempo, ove non sia correlato all’entità presumibile della prestazione straordinaria resa, costituisce attribuzione patrimoniale che, con il tempo, assume funzione diversa da quella originaria, tipica del compenso dello straordinario, e diviene un superminimo che fa parte della retribuzione ordinaria e non è riducibile unilateralmente dal datore di lavoro”.
A parere della Corte, il datore di lavoro può optare per il riconoscimento di un compenso a forfait – omnicomprensivo e non vincolato al numero di ore effettivamente lavorate oltre l’orario normale – volto a ristorare il lavoratore delle prestazioni di carattere straordinario. Il relativo quantum non è conseguenza di una rilevazione a consuntivo delle ore straordinarie prestate moltiplicate per le relative maggiorazioni. La sua misura è determinata a priori in funzione di un accordo tra le parti per compensare un monte ore di lavoro straordinario che si “presume” venga reso attraverso un’erogazione costante nel tempo.
Tale emolumento, divenendo dunque un elemento della retribuzione ordinaria del lavoratore, non è passibile di revoca unilaterale da parte del datore di lavoro.
Con queste motivazioni, la Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso presentato dal datore di lavoro, condannandolo al pagamento delle spese di giudizio.
L’Ispettorato Nazionale del Lavoro (INL), con la nota n. 963 del 5 novembre 2020, ha fornito ulteriori indicazioni operative su alcune modifiche apportate in sede di conversione in legge del Decreto-legge n. 104/2020 (c.d. Decreto Agosto) nonché sulle disposizioni in materia di ammortizzatori sociali e sospensione dei versamenti contenute nel più recente Decreto-legge n. 137/2020 (c.d. Decreto Ristori).
Proroga e rinnovo dei contratti a termine e dei contratti di somministrazione
L’articolo 8 del Decreto Agosto, come modificato dalla legge di conversione n. 126/2020, ha introdotto all’articolo 93 del Decreto Rilancio, convertito con modificazioni nella Legge n. 77/2020, il comma 1 bis prevedendo una importante deroga al limite di durata massima dei contratti di somministrazione a termine.
In particolare, la disposizione va a integrare il comma 1 dell’articolo 31 del Decreto Legislativo n. 81/2015, stabilendo che, fino al 31 dicembre 2021, il lavoratore assunto a tempo indeterminato dall’agenzia di somministrazione, può essere impiegato dall’utilizzatore a tempo determinato per periodi di missione superiori a 24 mesi anche non continuativi, senza che ciò comporti la costituzione in capo allo stesso utilizzatore di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato.
Tale possibilità è subordinata alla seguente duplice condizione:
Licenziamenti collettivi e individuali per giustificato motivo oggettivo
Numerose novità sono state, inoltre, apportate in materia di licenziamenti collettivi e individuali per giustificato motivo oggettivo dalla legge di conversione del Decreto Agosto e dal Decreto Ristori.
In particolare, la prima è intervenuta abrogando l’articolo 14, comma 4, del Decreto Agosto che prevedeva, a determinate condizioni, la possibilità per il datore di lavoro di revocare, con effetto retroattivo e senza l’applicazione di oneri o sanzioni, il licenziamento intimato al dipendente.
Il Decreto Ristori è, invece, intervenuto in maniera più incisiva in materia:
Nuovi trattamenti di CIGO, Assegno ordinario e CIGD ed esonero dal versamento dei contributi previdenziali per aziende che non richiedono i nuovi trattamenti
Al fine di contemperare le esigenze economiche aziendali con la proroga del divieto di cui al paragrafo che precede, l’articolo 12 del Decreto Ristori disciplina la fruizione (i) degli ammortizzatori sociali per eventi riconducibili all’emergenza epidemiologica da Covid-19 per una durata massima di sei settimane, dal 16 novembre fino al 31 gennaio 2021, e (ii) dell’esonero dal versamento dei contributi previdenziali, alternativa al trattamento di integrazione salariale.
Entriamo ora nel dettaglio.
Come previsto dal comma 2 dell’art. 12 del Decreto Ristori, le sei settimane aggiuntive sono fruibili dai datori di lavoro che abbiano già interamente goduto delle 18 settimane di integrazione salariale previste dal Decreto Agosto nonché dai datori di lavoro appartenenti ai settori interessati dalle misure restrittive del DPCM del 24 ottobre 2020. Dette settimane sono soggette al medesimo contributo addizionale già previsto dal Decreto Agosto per le seconde e ulteriori nove settimane di richiesta di intervento di integrazione salariale.
Nessun contributo addizionale è dovuto, invece, dai datori di lavoro che:
In alternativa alle sei settimane aggiuntive dei suddetti trattamenti è possibile fruire dell’esonero contributivo (sono esclusi i premi e i contributi da versare all’INAIL) fino al 31 gennaio 2021, nei limiti delle ore di integrazione salariale già fruite nel mese di giugno 2020.
Tuttavia, in analogia all’esonero contributivo previsto dal Decreto Agosto, anche il suddetto beneficio è subordinato alla preventiva autorizzazione della Commissione europea.
Sospensione dei versamenti dei contributi previdenziali e assistenziali
L’articolo 13 del Decreto Ristori ha previsto la sospensione dei termini relativi ai versamenti dei contributi previdenziali e assistenziali e dei premi INAIL dovuti nel mese di novembre 2020.
La sospensione è riservata ai datori di lavoro che hanno la sede operativa nel territorio dello Stato, appartenenti ai settori interessati dal DPCM 24 ottobre 2020 e che svolgono come attività prevalente una di quelle riferite ai codici ATECO riportati nell’Allegato del Decreto Ristori (ad esempio: bar, ristoranti, alberghi, gelaterie e pasticcerie, palestre, cinema, sale giochi e biliardi).
I pagamenti in questione dovranno essere effettuati, senza applicazione di sanzioni e interessi:
L’Agenzia delle Entrate, con la risposta ad interpello n. 490 del 21 ottobre 2020, è intervenuta in merito al trattamento fiscale applicato alla contribuzione previdenziale versata dal datore di lavoro all’INPS per il riscatto agevolato della laurea di alcuni lavoratori coinvolti in un accordo sindacale di incentivazione all’esodo.
Il pagamento del riscatto di laurea
I fatti riguardano l’interpello proposto all’amministrazione finanziaria da un’azienda interessata – nell’ambito di un piano di riduzione generalizzata del personale – a coinvolgere alcuni propri dipendenti a fine carriera in un accordo di risoluzione anticipata del rapporto di lavoro che preveda una particolare forma di accompagnamento alla pensione.
Nell’ambito dell’offerta economica riconosciuta per “l’uscita”, l’azienda concederebbe, infatti, ai lavoratori di percepire, entro il limite massimo equivalente a 12 mensilità della retribuzione annua lorda di riferimento di ciascuno, una somma da destinare al pagamento dei contributi previdenziali necessari per il riscatto agevolato del corso di laurea, volto all’anticipazione del conseguimento del diritto a pensione.
Propedeuticamente, il datore di lavoro siglerebbe uno specifico accordo con l’INPS al fine di accentrare presso di sé il versamento della contribuzione previdenziale utile al pagamento dell’onere di riscatto. Pertanto, i lavoratori che dovessero decidere di destinare una quota dell’incentivo all’esodo a tale iniziativa, ne farebbero esplicita richiesta alla società. Questa, a sua volta, accantonerebbe contestualmente l’importo da destinare al pagamento accentrato dei contributi previdenziali comunicati dall’INPS.
La deduzione fiscale dell’onere di riscatto
Inoltre, la società, in qualità di sostituto d’imposta, provvederebbe a rielaborare il conguaglio fiscale di fine rapporto dei dipendenti coinvolti riconoscendo in via automatica la deduzione dell’onere per la contribuzione volontaria, da far valere a riduzione del reddito di lavoro dipendente prodotto in corso d’anno e assoggettato a tassazione ordinaria.
A dire del datore di lavoro, infatti, “dalla determinazione della base imponibile da assoggettare a tassazione separata sembrerebbero, interpretando letteralmente la norma contenuta nell’articolo 19, comma 2 del TUIR, non rientrare i contributi «versati facoltativamente alla gestione della forma pensionistica obbligatoria di appartenenza», bensì solo i «contributi obbligatori dovuti per legge»”.
Le conclusioni dell’Agenzia delle Entrate
In merito all’operazione prospettata dal datore di lavoro, l’autorità fiscale ha precisato, in prima istanza, come i contributi previdenziali versati all’INPS per conto del dipendente si considerano reddito da assoggettare a tassazione separata. Ciò in quanto costituiscono una forma di incentivo all’esodo al pari del resto dell’indennità prevista per la cessazione del rapporto di lavoro.
L’Agenzia delle Entrate ha, infatti, osservato come l’incentivo all’esodo si sostanzi, in via generale, “in un’offerta, da parte del datore di lavoro, di somme aggiuntive rispetto a quelle dovute al dipendente per legge e/o contratto, che accetta di risolvere anticipatamente il rapporto di lavoro”. Nella fattispecie in esame, dunque, l’incentivo all’esodo, comprensivo della quota destinata a riscattare i periodi d’istruzione universitaria, “dovrà essere assoggettato a tassazione separata con l’aliquota applicata al Trattamento di Fine Rapporto”.
Circa l’operazione di conguaglio fiscale di fine rapporto menzionata dalla società, l’Agenzia delle Entrate ha rappresentato come “la deducibilità dal reddito complessivo dei contributi volontari alla forma pensionistica obbligatoria di appartenenza può essere riconosciuta anche dal datore di lavoro ai sensi dell’articolo 51, comma 2, lettera h) del TUIR, in applicazione del quale non concorrono a formare il reddito di lavoro dipendente, tra l’altro, «le somme trattenute al dipendente per oneri di cui all’articolo 10 e alle condizioni ivi previste»”.
L’autorità fiscale ha esposto, infatti, come la finalità perseguita dalla norma sia quella di evitare che “il lavoratore debba presentare la dichiarazione dei redditi al solo fine di fruire di oneri deducibili di cui il datore di lavoro è a conoscenza, avendo effettuato trattenute per gli stessi”.
Per quanto riguarda, infine, il trattamento ai fini IRES della somma destinata al pagamento dei contributi previdenziali del riscatto, l’Agenzia delle Entrate ha affermato che questa costituisce “una controprestazione per agevolare la risoluzione consensuale del rapporto ed abbia (ndr ha), quindi, una specifica connessione con il rapporto di lavoro, con conseguente deducibilità come componente negativo del reddito di impresa”.
1. CCNL Commercio (ANPIT – CISAL): welfare contrattuale
A decorrere dal periodo di paga di dicembre 2020, viene riconosciuto a tutti i lavoratori in forza, che abbiano superato il periodo di prova, un emolumento a titolo di welfare contrattuale. Detto emolumento deve essere tenuto distinto dagli eventuali benefici di analoga natura presenti in azienda.
Tale importo risulta pari a:
Il CCNL dispone che altre due tranches di compenso welfare, diversamente determinati, sono da erogarsi nei mesi di dicembre 2021 e dicembre 2022.
2. CCNL Commercio Cooperative di consumo/ CCNL Occhiali – Industria: assistenza sanitaria integrativa
Ai sensi di quanto disposto dal CCNL Commercio Cooperative di consumo, a decorrere dal 1° dicembre 2020, il contributo a carico delle imprese per il finanziamento del Fondo Coopersalute per i dipendenti della distribuzione cooperativa viene elevato ad Euro 11,00 mensili per tutto il personale in forza.
Il CCNL Occhiali-Industria prevede, invece, che il contributo mensile a Sanimoda pari a 8 Euro venga incrementato di 4 Euro, per complessivi 12 Euro mensili, per il periodo 1° gennaio – 31 dicembre 2020.
3. CCNL Penne, matite e spazzole – Industria: elemento di garanzia retributiva
In assenza di contrattazione collettiva aziendale o nel caso in cui la contrattazione si chiudesse senza un formale accordo entro il mese di novembre di ciascun anno, il datore di lavoro sarà tenuto ad erogare al personale in forza una somma lorda annua a titolo perequativo, onnicomprensiva e non incidente sul TFR.
Tale importo lordo è pari a Euro 275,00 per il 2020 ed Euro 300,00 per gli anni successivi da erogarsi con la retribuzione del mese di dicembre di ciascun anno.
4. CCNL Aeroporti – Trasporto aereo: lavoro stagionale
In data 17 giugno 2020 le parti contrenti il CCNL hanno siglato due accordi in cui è stato stabilito che le assunzioni effettuate da tale data e fino al 31 dicembre 2020 con la causale “Stagionalità” continuano ad essere disciplinate dall’Accordo del 19 novembre 2018 e successive proroghe.
In ragione della drastica riduzione delle attività di handling determinata dall’emergenza COVID-19 e dai riflessi del trascorrere del tempo sulle decadenze in tema di diritto di precedenza, in via eccezionale, è stato inoltre previsto di non computare a tale fine il periodo che intercorre dal 1° marzo 2020 fino al successivo 31 dicembre.
5. CCNL Agenzie di viaggio e turismo (Confcommercio): premio di risultato
Il CCNL stilato in data 24 luglio 2019 ha previsto che, in mancanza di un accordo sul premio di risultato aziendale sottoscritto entro il 30 aprile 2020, il datore di lavoro debba erogare gli importi stabiliti a tale titolo con la retribuzione del mese di maggio 2020.
6. CCNL Alimentari / Cooperative e Alimentari – Industria: assistenza sanitaria integrativa
È stato prorogato al 31 dicembre 2020 il versamento da parte dei datori di lavoro di un contributo al Fondo di assistenza sanitaria integrativa (Filcoop), pari ad 1 Euro al mese e riferito a ciascun lavoratore a tempo indeterminato, previsto dal CCNL Alimentari.
È stato anche prorogato al 31 dicembre 2020 il versamento (sempre a carico dei datori di lavoro), previsto dal CCNL Cooperative Alimentari per la bilateralità del settore, di un contributo pari ad 1 Euro al mese per ciascun dipendente.
7. CCNL Cartai – Piccola industria/ CCNL Grafici editoriali – Piccola industria: retribuzione
Entrambi i CCNL hanno statuito che, entro il 31 dicembre 2020, i flexible benefits messi a disposizione dei lavoratori nel mese di ottobre dovranno essere utilizzati.
I CCNL citati hanno previsto, in generale, che a decorrere dal 1° gennaio 2019 l’indennità sostitutiva del premio di risultato e l’elemento di garanzia retributiva vengano sostituiti da flexible benefits per un importo di Euro 258,00 a lavoratore.
8. CCNL Giornali quotidiani: indennità integrativa
È prorogata fino al 31 dicembre 2020 l’erogazione dell’Indennità Integrativa Temporanea ai dipendenti beneficiari, originariamente prevista per le sole mensilità di novembre e dicembre 2019.
Le parti contraenti il CCNL hanno convenuto, inoltre, che tale indennità possa divenire parte integrante dei minimi contrattuali a far data dal 1° gennaio 2021, sulla base di un prossimo e specifico accordo.
9. Aumento dei minimi retributivi dal 1° dicembre 2020
A decorrere dal 1° dicembre 2020 è previsto un aumento dei minimi retributivi tabellari dei seguenti contratti collettivi nazionali di lavoro:
Il decreto legislativo n. 122/2020, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 229 del 15 settembre 2020, ha recepito la direttiva (UE) 2018/957 in materia di distacco transnazionale: le nuove previsioni si innestano nel decreto legislativo n. 136/2016, attuale testo di riferimento di tale istituto nell’ordinamento italiano, apportandovi una serie di modifiche.
L’intento del legislatore europeo – fin dai primi provvedimenti presi in materia – mira a regolamentare le varie fattispecie di distacco transnazionale al fine di prevenire e debellare fenomeni distorsivi del mercato del lavoro comunitario, come il dumping e la somministrazione illecita di manodopera.
Esaminando il nuovo regime disposto dal decreto legislativo n. 122/2020 si ravvisa un generale restringimento delle maglie della regolamentazione, resa più rigorosa in riferimento a numerosi ambiti d’interesse. In primis, si evince come sia stata prevista un’estensione del campo di applicazione della normativa: in particolare, la regolamentazione in materia di distacco transnazionale viene applicata anche a fattispecie più articolate di distacco, come quello operato da agenzie di somministrazione, che in precedenza risultavano escluse dalla disciplina.
In dettaglio, è il caso delle agenzie di somministrazione situate in uno Stato membro diverso dall’Italia che, nell’ambito di una prestazione transnazionale di servizi, distacchino lavoratori presso una propria unità produttiva o presso un’altra impresa, anche appartenente allo stesso gruppo, avente sede in Italia per poi operare un ulteriore distacco presso imprese utilizzatrici italiane. In merito, la nuova normativa ha stabilito che i lavoratori ricompresi in tali fattispecie siano da considerarsi come distaccati in Italia direttamente dall’agenzia di somministrazione con la quale intercorre il rapporto di lavoro.
Inoltre, è stato previsto l’adempimento di un preciso obbligo informativo a carico dell’impresa utilizzatrice italiana, che dovrà informare l’agenzia di somministrazione distaccante circa le condizioni di lavoro e di occupazione che devono essere applicate nei confronti lavoratori distaccati.
Il decreto legislativo in esame ha inoltre chiarito come – nell’ottica di garantire una completa tutela dei diritti e delle condizioni di lavoro – i lavoratori oggetto del distacco debbano essere destinatari delle medesime regole e garanzie applicate ai lavoratori del Paese di destinazione. A tale proposito, il testo della norma riporta l’elencazione puntuale delle materie con riferimento alle quali viene prevista, se più favorevole, l’applicazione della normativa dello Stato membro dove si svolge la prestazione di lavoro.
A titolo esemplificativo, la norma riporta di istituti come i periodi massimi di lavoro e periodi minimi di riposo, la durata minima dei congedi annuali retribuiti, la retribuzione, comprese le maggiorazioni per lavoro straordinario, gli standard di salute e sicurezza nei luoghi di lavoro, etc. Con particolare riferimento agli istituti retributivi, si prevede che le voci che compongono la retribuzione individuale debbano essere perfettamente distinte e individuabili allo scopo di disincentivare l’erogazione di rimborsi simulati, aventi il solo fine di aggirare gli obblighi di versamento della contribuzione previdenziale sull’effettiva retribuzione percepita dal lavoratore.
L’intervento del legislatore ha interessato infine anche la durata massima del distacco: in particolare, la durata massima di 24 mesi viene ridotta a 12, con possibilità di estensione di ulteriori 6 mesi previa notifica motivata al Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali. La normativa prevede adesso che, decorso tale periodo senza che il lavoratore coinvolto sia rientrato dal distacco, trovino automatica applicazione, se più favorevoli, tutte le condizioni di lavoro e di occupazione previste in Italia dalle disposizioni normative e dai contratti collettivi nazionali e territoriali, eccezion fatta per quelle riguardanti le procedure e le condizioni per la conclusione e la cessazione del contratto di lavoro, le clausole di non concorrenza e la previdenza integrativa di categoria. Tale durata massima globale è riferita anche al caso di sostituzione di uno o più lavoratori distaccati per svolgere le medesime mansioni nello stesso luogo. L’identità delle mansioni svolte dai lavoratori è valutata caso per caso, tenendo conto anche della natura del servizio prestato, del lavoro da effettuare e del luogo di svolgimento della prestazione lavorativa.
Fonte: Sintesi
Su Norme & Tributi Plus Diritto de Il Sole 24 Ore, l’articolo a firma del nostro Consulente del Lavoro Andrea Di Nino sul parere dell’Agenzia delle Entrate, intervenuta in merito al trattamento fiscale applicato alla contribuzione previdenziale versata dal datore di lavoro all’INPS per il riscatto agevolato della laurea di alcuni lavoratori coinvolti in un accordo sindacale di incentivazione all’esodo.
L’Agenzia delle Entrate, con la risposta ad interpello n. 490 del 21 ottobre 2020, è intervenuta in merito al trattamento fiscale applicato alla contribuzione previdenziale versata dal datore di lavoro all’INPS per il riscatto agevolato della laurea di alcuni lavoratori coinvolti in un accordo sindacale di incentivazione all’esodo.
I fatti riguardano l’interpello proposto all’amministrazione finanziaria da parte di un’azienda interessata – nell’ambito di un piano di riduzione del personale – a coinvolgere alcuni propri dipendenti a fine carriera in un accordo di risoluzione anticipata del rapporto di lavoro che preveda la possibilità, per questi, di riscattare la laurea in modo agevolato e anticipare, di conseguenza, il conseguimento del diritto a pensione.
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Tornano in modalità webinar gli HR Breakfast di De Luca & Partners insieme alla collaborazione di HR Capital.
Lo scorso giovedì 19 novembre, HR Capital e De Luca & Partners hanno organizzato l’HR Virtual Breakfast con un focus tecnico e normativo sulle ultime novità al lavoro.
Il nostro Consulente del Lavoro Nunzio Lena e Alessandra Zilla, Senior Associate di De Luca & Partners hanno fatto il punto sui recenti decreti emergenziali con la moderazione del Managing Partner di De Luca & Partners, Vittorio De Luca.
L’evento si è tenuto dalle h 9.00 alle h 10.00 tramite la piattaforma Zoom.
AGENDA:
La partecipazione è gratuita previa registrazione.
Richiedi le slide scrivendo a: comunicazione@hrcapital.it
Il governo, a seguito dell’evoluzione dell’emergenza coronavirus, ha varato un nuovo decreto contenente aiuti per aziende e lavoratori.
In particolare, il Decreto Legge n. 137/2020, anche detto Decreto Ristori, potenzia gli strumenti di cassa integrazione ed assegno ordinario, che saranno a disposizione delle aziende per 6 settimane aggiuntive fruibili dal 16 novembre 2020 al 31 gennaio 2021, a condizione di aver già beneficiato delle 18 settimane stanziate dal Decreto agosto. Inoltre, introduce un nuovo esonero contributivo per le aziende che hanno fruito di ammortizzatori sociali per emergenza COVID-19 nel mese di giugno e che non intendono fruire di queste ulteriori 6 settimane di intervento.
Il decreto introduce inoltre la sospensione dei versamenti di contributi INPS e premi INAIL per i datori di lavoro colpiti dai provvedimenti restrittivi del DPCM dello scorso 24 ottobre, come bar, ristoranti, cinema e teatri: questi datori di lavoro potranno dunque effettuare i versamenti di competenza novembre 2020 entro il 16 marzo 2021 o, in alternativa, in 4 rate decorrenti dalla medesima data.
La Corte di Cassazione, con l’ordinanza n. 16135 del 28 luglio 2020, ha affermato che i buoni pasto non hanno natura retributiva e che, di conseguenza, la loro erogazione mensile ai lavoratori dipendenti può essere interrotta da parte del datore di lavoro in qualsiasi momento, anche unilateralmente.
I fatti di causa vedono un lavoratore ricorrere giudizialmente contro il proprio datore di lavoro, allo scopo di veder dichiarata l’illegittimità della decisione aziendale con la quale quest’ultimo aveva, in maniera del tutto unilaterale, disposto l’interruzione dell’erogazione dei buoni pasto in favore dei propri dipendenti. In particolare, il lavoratore rivendicava, nell’oggetto del proprio ricorso, la funzionalità dei buoni pasto ad un rapporto contrattuale integrativo, componente della retribuzione anche per la legittima aspettative dei lavoratori a seguito della reiterata e generalizzata prassi aziendale dall’anno 1999 al 2006. Di conseguenza, l’erogazione dei buoni pasto sarebbe da ricondursi al principio di irriducibilità della retribuzione stessa.
I giudici della Corte di Cassazione – nel confermare la pronuncia della Corte d’Appello – hanno affermato, preliminarmente, che i buoni pasto non rappresentano un elemento dell’ordinaria retribuzione del lavoratore e che, dunque, non sono da considerarsi come un’erogazione di natura retributiva.
I buoni pasto, a dire della Suprema Corte, sono da qualificarsi alla stregua di un’agevolazione preminentemente assistenziale e collegata al rapporto di lavoro da un nesso di natura meramente occasionale.
Ai fini della natura retributiva dei buoni pasto non rileva neppure la reiterata erogazione degli stessi nel tempo da parte del datore di lavoro, ancorché la stessa abbia ormai costituito una prassi aziendale consolidata. Pertanto, dal momento che i buoni pasto non rientrano nel trattamento retributivo in senso stretto, il datore di lavoro può decidere unilateralmente in merito alla loro erogazione, trattandosi la loro erogazione di una disposizione aziendale di carattere discrezionale, che nulla ha a che vedere con disposizioni contrattuali o sindacali.
Date le considerazioni sopra descritte, la Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso del lavoratore e confermato la legittimità dell’operato del datore di lavoro.
L’art. 1 del Decreto Legge 14 agosto 2020 n. 104 (c.d. “Decreto Agosto”), convertito, con modificazioni, dalla legge 13 ottobre 2020, n. 126, ha rideterminato il periodo dei trattamenti di integrazione salariale (ordinaria o in deroga) e dell’assegno ordinario che possono essere richiesti nel secondo semestre 2020 per far fronte all’emergenza sanitaria in atto.
In particolare, è stata prevista la possibilità per il datore di lavoro di accedere a un periodo massimo complessivo di 18 settimane (9 più ulteriori 9) fruibili dal 13 luglio 2020 al 31 dicembre 2020.
Le istruzioni dell’INPS
A dettare le istruzioni operative per la fruizione dei trattamenti di integrazione salariale in materia di Cassa Integrazione Guadagni Ordinaria (CIGO), Fondo di Integrazione Salariale (FIS) e Cassa Integrazione Guadagni in Deroga (CIGD) con causale COVID-19, è la circolare INPS n. 115 del 30 settembre.
Con essa l’Istituto ha innanzitutto fissato al 31 ottobre 2020 il termine entro il quale inoltrare le domande di integrazione salariale riferite ai periodi di luglio e agosto. A tal proposito, si evidenzia che la scadenza originaria, così come da previsione normativa, era fissata al 30 settembre 2020.
Il Decreto Agosto ha confermato la propedeuticità e l’obbligo della consultazione sindacale nonché il relativo esame congiunto con le organizzazioni sindacali più rappresentative per poi procedere alla richiesta di integrazione all’Istituto: restano esonerati da tale obbligo i datori di lavoro che non occupino più di 5 dipendenti.
La prassi operativa prevede l’invio all’Inps di due distinte domande.
Ai datori di lavoro sono riconosciute 18 settimane, suddivise in due distinti periodi da 9 settimane, da fruirsi nel periodo ricompreso tra il 13 luglio e il 31 dicembre 2020.
Per le prime 9 settimane di intervento, la richiesta di integrazione salariale potrà essere trasmessa sulla piattaforma INPS utilizzando la causale “COVID- Nazionale” con le medesime modalità utilizzate per le richieste di integrazione salariale previste dal “Decreto Cura Italia” e dal “Decreto Rilancio”.
Per le ulteriori 9 settimane di integrazione salariale, il Decreto Agosto ha introdotto un contributo addizionale a carico del datore di lavoro rendendo quindi “oneroso”, a particolari condizioni di fatturato come di seguito descritti, il ricorso agli ammortizzatori sociali con causale COVID-19.
Oltre alla circolare esplicativa relativa alle previsioni del Decreto Agosto, con il messaggio n. 3525 dello scorso 1° ottobre, l’INPS ha rilasciato le procedure di presentazione delle domande con la nuova causale “COVID 19 con fatturato” relativa alle ulteriori 9 settimane che non possono riguardare periodi anteriori al 14 settembre 2020 e da concludersi, comunque, entro il 31 dicembre 2020.
La richiesta delle ulteriori 9 settimane, a partire dal 14 settembre 2020, necessita dell’invio da parte del datore di lavoro dell’autocertificazione attestante il calo del fatturato registrato nel primo semestre del 2020 rispetto al primo semestre dell’anno precedente.
Più specificamente, il datore di lavoro deve autocertificare la sussistenza di una delle seguenti condizioni: non avere subito un calo di fatturato, aver avuto un calo di fatturato inferiore al 20%, aver subito un calo di fatturato pari o superiore al 20% o, infine, avere avviato l’attività di impresa in data successiva al 1° gennaio 2019.
L’accesso al secondo periodo di 9 settimane di integrazione salariale senza oneri a carico del datore di lavoro richiedente sarà, infatti, possibile solo per i datori di lavoro che (i) abbiano subito una riduzione del fatturato nel primo semestre del 2020 pari ad almeno al 20% rispetto al primo semestre dell’anno 2019 ovvero (ii) abbiano avviato l’attività di impresa in data successiva al 1° gennaio 2019.
Nelle casistiche per le quali si dovesse registrare una riduzione di fatturato in misura inferiore al 20% il datore di lavoro sarà soggetto al pagamento, appunto, del contributo addizionale nella misura del 9% della retribuzione che sarebbe spettata al lavoratore per le ore non prestate durante la sospensione o riduzione dell’attività.
Qualora invece non si dovesse registrare alcuna riduzione del fatturato, il contributo addizionale dovuto sarà pari al 18%.
Al fine di consentire l’individuazione dell’aliquota del contributo addizionale di cui all’art. 1 del Decreto Agosto, i datori di lavoro richiedenti devono corredare la domanda INPS di integrazione salariale con una dichiarazione di responsabilità, resa ai sensi dell’art. 47 del D.P.R. n. 445/2020. Con essa i datori di lavoro devono autocertificare alternativamente la sussistenza e l’indice dell’eventuale riduzione del fatturato nonché il diritto all’esonero dal versamento del contributo addizionale qualora l’attività di impresa sia stata avviata in data successiva al 1° gennaio 2019.
Così come espressamente riportato nel messaggio n. 3131 del 21 agosto 2020, qualora la domanda non fosse corredata dall’apposita autocertificazione, il contributo addizionale sarà richiesto nella misura massima del 18% della retribuzione globale che sarebbe spettata al lavoratore per le ore di lavoro non prestate durante la sospensione o riduzione dell’attività lavorativa.
Il datore di lavoro, nel caso in cui fosse impossibilitato all’anticipo dei trattamenti di integrazione salariale e optasse per il pagamento diretto della prestazione da parte dell’INPS, sarà tenuto ad inviare all’Istituto tutti i dati necessari per il pagamento o per il saldo dell’integrazione salariale entro la fine del mese successivo a quello in cui è collocato il periodo di integrazione salariale (c.d. modello SR41).
Infine, in tema di cassa integrazione in deroga, con l’obiettivo di semplificare il farraginoso iter burocratico che prevedeva in primis l’invio della domanda di integrazione salariale alla Regione territorialmente competente e successivamente all’Inps, il Decreto Agosto ha disposto che la trasmissione delle domande venga espletato con le medesime modalità utilizzate per i trattamenti di CIGO e FIS, ovverosia utilizzando direttamente la piattaforma INPS.
L’INPS, con la circolare 105/2020, ha fornito i primi chiarimenti per la gestione degli adempimenti connessi all’esonero dal versamento dei contributi previdenziali per i datori di lavoro che non richiedono ulteriori trattamenti di integrazione salariale connessi con l’emergenza epidemiologica da COVID-19.
Le previsioni del Decreto Agosto
L’articolo 3 del Decreto Legge 14 agosto 2020 n. 104 (c.d. “Decreto Agosto”), convertito, con modificazioni, dalla Legge 13 ottobre 2020, n. 126, riconosce un incentivo economico, sotto forma di esonero dal versamento dei contributi previdenziali, in favore dei datori di lavoro che (i) non richiedono gli ulteriori periodi di integrazione salariale previsti dal medesimo decreto e (ii) abbiano già fruito negli scorsi mesi di maggio e giugno dei trattamenti di integrazione salariale di cui al Decreto Legge 17 marzo 2020, n. 18 (cd. “Decreto Cura Italia”).
L’esonero contributivo è fruibile per un periodo di massimo 4 mesi, e comunque entro il 31 dicembre 2020, e nei limiti del doppio delle ore di integrazione salariale già fruite nei medesimi mesi di maggio e giugno 2020.
Inoltre, ai datori di lavoro che abbiano beneficiato di tale esonero si applicano i divieti in materia di licenziamenti collettivi e individuali per giustificato motivo oggettivo, di cui all’articolo 14 del Decreto Agosto. La violazione di tale disposizione comporta la revoca, con efficacia retroattiva, dall’esonero contributivo concesso e l’impossibilità di presentare domanda di integrazione salariale ai sensi dello stesso Decreto.
I chiarimenti dell’INPS
L’INPS, con la circolare in esame, ha chiarito che possono beneficiare dello sgravio contributivo i datori di lavoro privati, anche non imprenditori, ad esclusione del settore agricolo, che:
In aggiunta a quanto precede, l’INPS precisa che possono comunque beneficiare dell’esonero de quo i datori di lavoro che hanno fatto richiesta di ammortizzatori sociali sulla base del Decreto Cura Italia prima del 15 agosto (data di entrata in vigore del Decreto Agosto), ovvero, in alternativa, anche dopo il 14 agosto. Ciò a condizione che i periodi di integrazione decorrano in data anteriore al 13 luglio, non rilevando in questo caso il fatto che i trattamenti di integrazione salariale possano avere uno sviluppo, seppur parziale, dopo il 12 luglio.
Al riguardo, è stato altresì evidenziato che i trattamenti di integrazione salariale sono richiesti in relazione alle singole unità produttive facenti capo al medesimo datore di lavoro (matricola INPS), e pertanto lo stesso potrà operare la scelta tra ricorso all’ammortizzatore sociale e esonero contributivo per singola unità produttiva.
La misura dell’incentivo è pari alla contribuzione a carico del datore di lavoro – con esclusione dei premi e contributi dovuti all’INAIL e altre contribuzioni minori (quali, ad esempio, il contributo dello 0,30% destinato al finanziamento dei fondi interprofessionali; il contributo, ove dovuto, al “Fondo per l’erogazione ai lavoratori dipendenti del settore privato dei trattamenti di fine rapporto di cui all’articolo 2120 del codice civile”) – non versata in relazione al doppio delle ore di fruizione degli ammortizzatori sociali nei mesi di maggio e giugno 2020 e prescinde dal numero dei lavoratori per i quali si è fruito dei trattamenti di integrazione salariale.
L’importo complessivo dell’incentivo così ottenuto deve essere riparametrato e applicato su base mensile (nel limite massimo della contribuzione astrattamente dovuta nel mese dal datore di lavoro beneficiario) per un periodo di massimo 4 mesi e, comunque, entro il termine ultimo di fruizione del 31 dicembre 2020.
Infine, l’Istituto ha precisato che l’esonero contributivo di cui si tratta è subordinato, oltre al rispetto (i) delle condizioni previste per l’accesso a tutti i benefici di natura contributiva nonché (ii) del divieto di licenziamento previsto dall’articolo 14 del Decreto Agosto, al benestare della Commissione europea.
Infatti, essendo rivolto ad una specifica platea di destinatari si configura nell’alveo degli “aiuti di Stato” per i quali è necessaria la preventiva autorizzazione della Commissione europea, come anche sottolineato dalla nota dell’INL del 16 settembre 2020, n. 713.
Per l’effettiva applicazione del beneficio si resta dunque in attesa della necessaria autorizzazione della Commissione Europea oltre che delle successive istruzioni operative da parte dell’INPS.
Con la Risoluzione n. 55/E/2020, del 25 settembre, l’Agenzia delle Entrate ha risposto positivamente ad un’istanza di interpello presentata da una Società intenzionata all’attivazione di un piano di Welfare attraverso due distinti regolamenti aziendali in forza dei quali, al raggiungimento di un obiettivo di fatturato minimo, sarebbe stato riconosciuto ai dipendenti un credito Welfare da utilizzare attraverso una specifica piattaforma web.
La Società, con il suo l’interpello, domandava:
Considerazioni dell’Agenzia delle Entrate
In relazione all’applicabilità del regime di cui all’art. 51 commi 2 e 3 del TUIR l’Agenzia delle Entrate ha ribadito che le somme erogate a titolo di credito Welfare non concorrono alla formazione del reddito se i benefit sono messi a disposizione della generalità o di categorie di dipendenti.
Tale indicazione era già stata confermata con la circolare n. 28/E/2016, allorquando l’Agenzia delle Entrate aveva sottolineato la possibilità di avvalersi di piani di welfare legati alla premialità, ancorché offerti alla generalità o a categorie omogenee di dipendenti.
Si è ribadito, inoltre, che l’espressione “categorie di dipendenti” è da intendersi in senso ampio e non limitato alle categorie previste da codice civile. Sono considerate “categorie”, ad esempio, anche i dipendenti di un certo “livello”, “inquadramento” o con una certa “anzianità di servizio”.
Per quanto riguarda, invece, il carattere premiale e incentivante di un piano di Welfare la cui erogazione di beni e servizi è vincolata al raggiungimento di un obiettivo aziendale, secondo l’Agenzia delle Entrate l’applicabilità del regime di cui all’art. 51 commi 2 e 3 permane anche quando i beni e i servizi vengono corrisposti per gratificare i lavoratori.
L’Agenzia, infatti, nel caso in esame, ha ritenuto prevalente l’aspetto della c.d. “fidelizzazione” dei dipendenti che non viene meno quando la ripartizione dei benefit “non trovi (ndr trova) giustificazione nella valutazione dell’attività lavorativa del dipendente, sia singolarmente considerato che in gruppo, ovvero su valutazioni strettamente connesse alla prestazione lavorativa”.
In considerazione di quanto espresso dall’Agenzia delle Entrate con la risoluzione in esame, risulta in linea con i commi 2 e 3 dell’articolo 51 del TUIR un piano welfare che premia i lavoratori in ipotesi di incremento del fatturato aziendale, con una graduazione dell’erogazione dei benefits in base alla retribuzione annua lorda di ogni singolo dipendente e purché i benefits non vengano erogati in sostituzione della retribuzione fissa o di quella variabile.
2. Deducibilità ai fini IRES dei costi per implementare il Piano Welfare
Per quanto riguarda, invece, la deducibilità ai fini IRES dei costi che la Società sostiene per l’implementazione del Piano di Welfare, l’Agenzia delle Entrate non ha evidenziato criticità nell’applicare l’art. 95 del TUIR se i crediti welfare riconosciuti ai lavoratori vengono erogati in ragione di un contratto, un accordo o un regolamento aziendale che possa configurare l’adempimento di un obbligo negoziale.
L’Agenzia delle Entrate, riprendendo la circolare n. 28/E del 15 giugno 2016, ha infatti chiarito che un regolamento, affinché configuri l’adempimento di un obbligo negoziale, non deve essere revocabile e non deve essere modificabile in autonomia dal datore di lavoro. In tale circostanza i costi per i benefits del piano di welfare sostenuti dal datore di lavoro sono totalmente deducibili ai fini IRES e non nel solo limite del cinque per mille previsto dall’art. 100 del TUIR.
La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 18955 pubblicata il giorno 11 settembre 2020, ha affermato che nel caso di licenziamento per raggiungimento dei limiti di età è comunque dovuto al lavoratore il preavviso o la relativa indennità sostitutiva.
I fatti
I fatti di causa riguardano un lavoratore, inquadrato come dirigente, a cui era applicato il contratto collettivo nazionale di lavoro per i dirigenti del settore industriale (il “CCNL”). Il dirigente – avente diritto alla pensione di vecchiaia dal 4 febbraio 2009, data del compimento del 65° anno di età – aveva ricevuto una prima comunicazione di risoluzione del rapporto di lavoro il 26 marzo 2008 con effetto dal successivo 30 giugno.
In data 14 gennaio 2009 l’azienda comunicava al dirigente la risoluzione del rapporto al 4 febbraio 2009, operando quindi una rettifica della comunicazione inviata il 26 marzo 2008.
Il dirigente adiva così l’autorità giudiziaria e risultando soccombente ricorreva in appello.
La Corte d’appello adita riteneva sussistente l’obbligo datoriale al preavviso, osservando come l’art. 2118 cod. civ. non ponesse limitazioni di sorta e neppure l’art. 22 del CCNL escludesse un tale obbligo in caso di risoluzione del rapporto di lavoro per raggiunti limiti di età.
In merito al quantum, la Corte d’appello osservava come il preavviso effettivamente fruito dal lavoratore fosse stato pari a soli 18 giorni, intercorrenti dal 14 gennaio 2009 al 4 febbraio 2009, neanche lontanamente congruo a quanto stabilito dalla contrattazione collettiva, con ogni conseguenza in termini di riconoscimento della relativa indennità per il periodo non accordato. Per questo motivo, la Corte di Appello condannava il datore di lavoro al pagamento in favore del dirigente dell’indennità sostitutiva del preavviso riferita alla differenza tra i 12 mesi dovuti a norma di CCNL e i 18 giorni di preavviso effettivamente allo stesso garantiti.
Avverso la decisione dei giudici di merito la società datrice di lavoro proponeva ricorso per cassazione, cui il dirigente resisteva con controricorso.
La decisione della Corte di Cassazione
A detta della Suprema Corte la sentenza impugnata ha precisato come proprio la società datrice di lavoro avesse, con il suo comportamento, confermato che il raggiungimento dei limiti di età – nonostante abilitasse la stessa a procedere con il licenziamento ad nutum – non esonerava comunque dal garantire il preavviso al lavoratore, in coerenza anche con una corretta lettura dell’art. 22 del CCNL.
La medesima Corte ha enunciato di aver più volte statuito che “la tipicità e tassatività delle cause d’estinzione del rapporto di lavoro escludono risoluzioni automatiche al compimento di determinate età ovvero con il raggiungimento di requisiti pensionistici”, diversamente da quanto accade, ad esempio, nel lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni in tema di collocamento a riposo d’ufficio.
Pertanto, in assenza di un valido atto risolutivo del datore di lavoro, secondo la Corte, il rapporto “prosegue con diritto del lavoratore a percepire le retribuzioni anche successivamente al compimento del sessantacinquesimo anno di età. A ciò consegue che, nel campo dei rapporti di lavoro di natura privatistica, per la risoluzione del rapporto per limiti di età anagrafica del lavoratore, al datore di lavoro è imposto comunque l’obbligo di preavviso”.
Alla società datrice di lavoro, contrariamente a quanto determinato in appello, è stata riconosciuta solo l’effettiva decorrenza del preavviso dalla prima comunicazione inviata al lavoratore – datata 26 marzo 2008 – in luogo della seconda inviata il 14 gennaio 2009. A detta dei giudici della Cassazione, infatti, non può ritenersi che la seconda comunicazione abbia avuto effetti estintivi della prima, in quanto “finalizzata solo alla anticipazione del termine, originariamente fissato, di cessazione del rapporto, ferma restando la manifestata volontà risolutiva”.
Tuttavia, il termine applicabile nella fattispecie (12 mesi dal 26 marzo 2008) non è risultato interamente rispettato, con la conseguenza che la Corte di Cassazione ha riconosciuto al lavoratore il diritto all’indennità sostitutiva del preavviso in misura corrispondente al periodo non goduto, pari ad un mese e ventidue giorni (dal 4 febbraio 2009 al 26 marzo 2009). Tale soluzione è stata considerata coerente con quanto previsto dall’art. 1231 cod. civ., che esclude la novazione (e quindi in generale un fenomeno estintivo) in presenza di modifiche che riguardano l’apposizione e/o l’eliminazione di un termine.
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La sentenza in commento giunge, dunque, alla conclusione secondo la quale nel campo dei rapporti di lavoro di natura privatistica, per la risoluzione del rapporto per limiti di età anagrafica del lavoratore, il datore di lavoro è legittimato a procedere con un recesso ad nutum pur nel rispetto dell’obbligo del preavviso contrattualmente dovuto.