Il CCNL ha previsto, in favore dei lavoratori in servizio nel periodo compreso tra settembre 2021 e febbraio 2023, l’erogazione di arretrati. Il pagamento è erogato a decorrere dalla mensilità del mese di marzo e l’importo totale è compreso tra Euro 1.607,41 e Euro 803,70, suddiviso in 10 rate mensili.
Con decorrenza dalla data del 1° dicembre 2021, anche a integrale copertura del periodo trascorso a titolo di carenza contrattuale 2019-2021, in favore del personale in forza nelle aziende associate nel mese di dicembre 2021, la retribuzione tabellare lorda riferita al parametro B1 è incrementata dell’importo di Euro 65,00 lordi mensili, da riparametrare sulla base della scala applicata e a cui detrarre l’I.V.C. già corrisposta dalle aziende.
A decorrere dal 1° gennaio 2021, ai dipendenti di aziende che non abbiano stipulato accordi di secondo livello alla data del 31 dicembre 2020, e sempreché gli stessi lavoratori non percepiscano trattamenti economici, anche forfettari, individuali o collettivi, in aggiunta al trattamento economico già fissato dal C.C.N.L., erogato un importo annuo, in cifra fissa pari a euro 400 lordi, da corrispondere entro il 31 maggio 2021, e così per ogni anno successivo.
Il Contratto Collettivo Nazionale di Lavoro Intersettoriale 20 luglio 2020 per i dipendenti delle aziende del Commercio, Terziario, Servizi, Turismo e Pubblici Esercizi decorre dalla data del 1° giugno 2020 e scade il 31 maggio 2023. Le Parti si impegnano, durante tutto il periodo di vigenza del presente C.C.N.L., a rivedersi con cadenza annuale al fine di armonizzare, rispetto ai futuri andamenti, l’attuale disciplina economica e normativa.
Nel mese di maggio 2023 è prevista l’erogazione di importi a titolo di “una tantum” per i dipendenti i cui rapporti di lavoro sono disciplinati dai seguenti CCNL:
L’INPS, con la circolare n. 32/2023, ha fornito le istruzioni amministrative per l’accesso alla prestazione di disoccupazione NASpI nei casi di dimissioni del lavoratore padre che ha fruito del congedo di paternità obbligatorio, disciplinato dal nuovo articolo 27 bis del D.lgs. n. 151/2001 (Testo Unico in materia di tutela e sostegno della maternità e della paternità – di seguito anche “Testo Unico”), così come già previsto nelle ipotesi di dimissioni del lavoratore padre che fruisce del congedo di paternità alternativo, ai sensi dell’articolo 28 del Testo Unico.
Si ricorda che l’articolo 28 del Testo Unico disciplina il congedo di paternità alternativo fruito in sostituzione di quello della madre in presenza di situazioni particolarmente gravi, come la morte e la grave infermità della madre, l’abbandono del minore da parte della madre o l’affidamento esclusivo del bambino al padre.
Con l’introduzione dell’articolo 27 bis del Testo Unico, viene pertanto esteso il diritto ad accedere all’indennità NASpI anche al padre lavoratore che abbia fruito del periodo di congedo obbligatorio e che rassegni le dimissioni volontarie entro il primo anno di vita del bambino.
Nella propria circolare, l’ente ripercorre la normativa attinente al congedo di paternità, focalizzandosi anzitutto sulle modifiche che il D.lgs. n. 105/2022 – in vigore dal 13 agosto 2022 e recante le disposizioni finalizzate a migliorare la conciliazione tra attività lavorativa e vita privata per i genitori e i prestatori di assistenza – ha apportato al Testo Unico, con particolare riferimento all’introduzione dell’articolo 27-bis, relativo al “Congedo di paternità obbligatorio”, e alla modifica del comma 7 dell’articolo 54 in materia di divieto di licenziamento, con la quale il divieto è stato esteso anche al lavoratore padre che ha fruito del congedo obbligatorio (articolo 27-bis del Testo Unico).
Il nuovo articolo 27-bis del D.lgs. n. 151/2001 ha introdotto il congedo di paternità obbligatorio, prevedendo per il padre lavoratore l’obbligo di astenersi dal lavoro per un periodo di dieci giorni lavorativi, fruibili a partire dai due mesi precedenti la data presunta del parto ed entro i cinque mesi successivi. Nei casi di parto plurimo, la durata del congedo si raddoppia, aumentando pertanto a venti giorni lavorativi.
L’Istituto ha inoltre precisato che i dieci giorni lavorativi non sono frazionabili ad ore e possono essere utilizzati anche in via non continuativa e che, con le stesse modalità, il congedo è fruibile anche in caso di morte perinatale del figlio.
Il congedo in parola è fruibile anche durante il congedo di maternità della madre lavoratrice, ed è altresì compatibile con il congedo di paternità alternativo di cui all’articolo 28 del Testo Unico.
Gli articoli 54 e 55 del D.lgs. n. 151/2001, Testo Unico in materia di tutela e sostegno della maternità e della paternità, disciplinano il divieto di licenziamento e di dimissioni della lavoratrice madre e del lavoratore padre durante il periodo di tutela della maternità e della paternità.
In particolare, l’articolo 54 del Testo Unico prevede che le lavoratrici madri non possono essere licenziate dall’inizio del periodo di gravidanza fino al termine dei periodi di interdizione obbligatoria dal lavoro, e comunque fino al compimento di un anno di età del bambino.
Con le integrazioni apportate a tale disciplina dal D.lgs. n. 105/2022, anche nei casi di fruizione del congedo di paternità obbligatorio (articolo 27-bis del Testo Unico), il divieto di licenziamento diventa applicabile anche al padre lavoratore per la durata del congedo stesso e si estende fino al compimento di un anno di età del bambino.
Pertanto, tale ultima disposizione – che già nella sua formulazione originaria prevedeva la tutela del divieto di licenziamento a favore del padre lavoratore in caso di fruizione del congedo di paternità alternativo di cui all’articolo 28 del Testo Unico – estende il divieto di licenziamento anche all’ipotesi di fruizione del congedo di paternità obbligatorio di cui all’articolo 27-bis.
Il successivo articolo 55 del Testo Unico dispone altresì che in caso di dimissioni volontarie presentate dalla lavoratrice durante il periodo per cui è previsto il divieto di licenziamento, la dipendente non è tenuta a rispettare i termini di preavviso e ha diritto alle indennità previste da disposizioni di legge e contrattuali per il caso di licenziamento. Al riguardo, si segnala che tali disposizioni si applicano anche al padre lavoratore che ha fruito del congedo di paternità alternativo.
Per quanto sopra rappresentato, a seguito di concorde interpretazione del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali delle disposizioni normative sopra richiamate, l’INPS ha precisato che in ragione del richiamo generico al “congedo di paternità” e in assenza di specifica qualificazione dello stesso, le tutele di cui all’articolo 55 sono da intendersi rivolte al lavoratore padre sia nel caso di fruizione del congedo di paternità obbligatorio che nel caso di fruizione del congedo di paternità alternativo, disciplinati rispettivamente dai menzionati articoli 27-bis e 28 del D.lgs. n. 151/2001.
Prima delle già menzionate modifiche apportate agli articoli 54 e 55 del Testo Unico, l’accesso alla NASpI in caso di dimissioni nel periodo in cui vige il divieto di licenziamento e fino al compimento di un anno di età del bambino era riservata, oltre che alla lavoratrice madre, anche al lavoratore padre ma nelle sole ipotesi di fruizione del congedo di paternità alternativo, fruibile “in caso di morte o di grave infermità della madre ovvero di abbandono, nonché in caso di affidamento esclusivo del bambino al padre”.
In ragione di tali modifiche, il lavoratore padre che ha fruito del congedo di paternità obbligatorio e/o del congedo di paternità alternativo ha diritto all’indennità di disoccupazione NASpI, fermo restando il rispetto di tutti gli altri requisiti legislativamente previsti.
Resta fermo che, in caso di dimissioni presentate dal lavoratore che fruisce del congedo di paternità (obbligatorio o alternativo) nel successivo periodo protetto sino al compimento di un anno di età del bambino, il datore di lavoro è tenuto al versamento del c.d. ticket di licenziamento a finanziamento dell’indennità di disoccupazione NASpI.
In attuazione delle indicazioni contenute nella propria circolare, l’Istituto ha inoltre precisato inoltre che le domande di indennità di disoccupazione NASpI presentate da lavoratori padri a seguito di dimissioni intervenute durante il periodo in cui vige il divieto di licenziamento, e respinte nelle more della pubblicazione della circolare stessa, potranno essere oggetto di riesame su istanza da parte degli interessati da trasmettere alla Sede INPS territorialmente competente.
L’Ispettorato Nazionale del Lavoro (“INL”) ha emanato la nota n. 453/2023, con la quale fornisce chiarimenti in merito alla possibilità di promuovere il ricorso ex articolo 17 del Decreto Legislativo n. 124/2004 avanti al Comitato per i rapporti di lavoro nell’ipotesi di tirocinio fraudolento.
Il tirocinio, c.d. anche “stage”, non si prefigura come un rapporto di lavoro subordinato, in quanto la causa del contratto è la mera finalità formativa che consenta al tirocinante di svolgere temporanee esperienze nel mondo del lavoro al fine di arricchire il proprio bagaglio di conoscenze professionali e proporsi per future assunzioni. Allo stesso tempo, lo stage è un’occasione per il datore di lavoro di formare, secondo le proprie esigenze, una potenziale risorsa da impiegare successivamente nell’ambito della propria organizzazione.
Al fine di tutelare le modalità di utilizzo di tale forma contrattuale, la Legge n. 234/2021 (“Legge di Bilancio 2022”), con l’articolo 1, commi da 720 a 726, ha introdotto una serie di misure volte ad arginare l’uso irregolare della forma contrattuale in trattazione.
La normativa in esame ha previsto che, per i tirocini extracurriculari proseguiti e/o conclusi dopo il 1° gennaio 2022, sia applicabile il trattamento sanzionatorio disposto dall’articolo 1 comma 723, nel caso in cui il tirocinio risulti svolto in modo fraudolento. Perché si configuri “la fraudolenza” è sufficiente provare che il rapporto di tirocinio si sia svolto come un vero e proprio rapporto di lavoro subordinato, dal momento che la fraudolenza consiste, secondo il dettato normativo, proprio nell’avvalersi di lavoratori dipendenti nella veste fittizia di tirocinanti.
In particolare, il comma 723 dell’articolo già menzionato, dopo aver ribadito che il tirocinio non costituisce un rapporto di lavoro subordinato e che non può essere utilizzato in sostituzione di lavoro dipendente, prevede la comminazione della sanzione dell’ammenda pari a Euro 50,00 per ciascun tirocinante coinvolto e per ciascun giorno di tirocinio.
Trattandosi di sanzione penale, punita con pena pecuniaria, la stessa è soggetta alla prescrizione obbligatoria ex art. 20 L. n. 758/1994, volta a far cessare il rapporto in essere in violazione dei principi che ne disciplinano la regolare gestione. Resta ferma la possibilità, oltre alla comminazione della sanzione, su domanda del tirocinante, di riconoscere la sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato a partire dalla pronuncia giudiziale. A fronte della prescrizione impartita dal personale ispettivo, ove il soggetto ospitante ottemperi e paghi la sanzione, il reato viene estinto in via amministrativa.
Per quanto riguarda la corretta definizione della sanzione applicabile, alla luce dei principi di cui agli artt. 1 e 2, comma 1, c.p. nonché degli orientamenti giurisprudenziali in merito, si deve ritenere che il reato di cui al comma 723 si possa configurare solo a decorrere dal 1° gennaio 2022, con relativa applicazione della sanzione per le sole giornate che decorrono da tale data.
L’Ispettorato Nazionale del Lavoro, con la nota in trattazione, torna ad occuparsi della novellata disciplina in tema di tirocinio, con particolare riguardo agli aspetti sanzionatori introdotti dalla Legge di Bilancio 2022 al fine di evitare eventuali sovrapposizioni di giudicato con l’autorità penale.
Verificato il regime sanzionatorio applicabile al non conforme utilizzo del rapporto di tirocinio, dunque, l’INL ha inteso chiarire quali possano essere i rimedi esperibili dal soggetto ospitante e se, il medesimo, possa o meno promuovere un ricorso ex articolo 17 al fine di verificare l’effettiva presenza, nell’esecuzione di un tirocinio, di un rapporto di lavoro subordinato.
È bene precisare che, a norma dell’articolo 17 del D. Lgs n. 124/2004, il Comitato per i rapporti di lavoro è chiamato a effettuare valutazioni in merito ai ricorsi amministrativi «avverso gli atti di accertamento dell’Ispettorato nazionale del lavoro e gli atti di accertamento degli Enti previdenziali e assicurativi che abbiano ad oggetto la sussistenza o la qualificazione dei rapporti di lavoro».
Nonostante quanto previsto dalla normativa, per il caso in specie, l’Ispettorato ha inteso escludere la possibilità di ricorso amministrativo al Comitato per i rapporti di lavoro al fine di evitare sovrapposizioni di giudicato con l’autorità penale. Infatti, la diversa qualificazione del rapporto di lavoro in chiave di subordinazione risulta direttamente sanzionata da una norma penale, in ragione della quale il personale ispettivo procede con la redazione dello specifico provvedimento della prescrizione obbligatoria.
Peraltro, già con la nota n. 1551/2021, era stata esclusa, da parte dell’Ispettorato, la possibilità di presentare ricorso ex art. 17 nelle ipotesi di esternalizzazioni illecite di cui all’art. 18, comma 5-bis, del D.Lgs. n. 276/2003, nel cui contesto non si realizza alcun effetto costitutivo di un rapporto di lavoro atteso che, anche in questo caso, la scelta di agire giudizialmente per far accertare la sussistenza di un rapporto di lavoro in capo all’utilizzatore, ai sensi del comma 3-bis dell’art. 29 e 4-bis dell’art. 30 del D.Lgs. n. 276/2003, è sempre devoluta al lavoratore interessato.
Vista la mancata disdetta da parte delle parti contraenti, la validità del CCNL, sia della parte normativa che della parte economica, è rinnovata di 5 anni, con scadenza alla data del 1° aprile 2028.
Nelle aziende che non abbiano fatto contrattazione di II livello negli ultimi tre anni, l’importo dell’E.G.R. – pari a Euro 250,00 lordi per l’anno di competenza, viene erogato con la retribuzione del mese di aprile per i lavoratori a tempo indeterminato in forza dal 1° gennaio di ogni anno e che nello stesso periodo non abbiano ricevuto nessun altro trattamento economico collettivo, inclusi quelli a titolo di liberalità, in aggiunta a quanto spettante a norma di C.C.N.L.
L’importo annuo di Euro 250 euro lordi deve essere riconosciuto con una cifra inferiore, fino a concorrenza, in caso di presenza di un trattamento economico aggiuntivo a quello fissato dal C.C.N.L..
Con decorrenza dal 1° aprile 2023 ai lavoratori inquadrati nella categoria di Quadro verrà mensilmente corrisposta un’indennità di funzione pari:
– Quadri di Direzione euro 273,00 (duecentosettantatre/00 euro) lorde per 14 mensilità;
– Quadri euro 238,00 (duecentotrentotto/00 euro) lorde per 14 mensilità.
Entro il mese di aprile 2023 dovrà essere erogato al personale dipendente in forza al 28 dicembre 2022 un importo complessivo a titolo di “arretrati dovuti all’aumento dei minimi tabellari” per il periodo 1° dicembre 2021 – 31 dicembre 2022.
L’E.G.R. è erogato in una unica soluzione con le competenze del mese di aprile ed è corrisposto pro quota con riferimento a tanti dodicesimi quanti i mesi di servizio nell’anno precedente. A tali fini viene considerato come mese intero la frazione di mese superiore a 15 giorni.
Ai lavoratori a tempo indeterminato in forza dal 1° gennaio di ogni anno, nelle aziende che non abbiano mai fatto contrattazione di II livello e che nei precedenti tre anni non abbiano ricevuto nessun altro trattamento economico individuale o collettivo in aggiunta a quanto spettante a norma di C.C.N.L., è riconosciuta con le competenze del mese di aprile un importo annuo di 250,00 euro lordi, ovvero una cifra inferiore fino a concorrenza in caso di presenza di un trattamento economico aggiuntivo a quello fissato dal C.C.N.L.
Le Parti Sociali hanno convenuto un incremento per la parte economica stabilito Euro 21,25 a decorrere dal 1° aprile 2023.
Ai dipendenti assunti a tempo indeterminato in forza nelle aziende prive di contrattazione di secondo livello riguardante il premio di risultato e che non abbiano percepito nel corso dell’anno precedente altri trattamenti economici individuali o collettivi comunque soggetti a contribuzione oltre a quanto spettante dal presente Contratto Collettivo, sarà riconosciuto un importo annuo pari a 260 euro lordi, ovvero una cifra inferiore fino a concorrenza in caso di presenza di un trattamento economico aggiuntivo a quello fissato dal C.C.N.L..
Per il finanziamento della mutua è dovuto alla stessa, un contributo obbligatorio a carico dell’azienda, pari ad euro 144,00 (centoquarantaquattro/00) annuali per ogni lavoratore beneficiario da corrispondere alla mutua Cesare Pozzo anticipatamente in quote mensili uguali, pari a euro 12,00 (euro dodici/00) per ogni lavoratore, entro e non oltre il giorno 16 (sedici) di ogni mese.
A decorrere dal primo giorno del quarto mese dopo la scadenza del C.C.N.L., ove sia intervenuta disdetta e nel caso di presentazione della piattaforma nei termini di cui al comma 3 qualora non sia intervenuto accordo di rinnovo, sarà erogato erogata a tutti i lavoratori dipendenti una indennità di vacanza contrattuale un elemento provvisorio di retribuzione pari al 30% del tasso annuo programmato di inflazione, da calcolarsi sui minimi retributivi contrattuali vigenti (minimi tabellari ed ex indennità di contingenza, compreso E.D.R.).
Dall’inizio del settimo mese di vacanza contrattuale, detto importo sarà pari al 50% del tasso di inflazione annuo programmato.
Dalla data di esecutività dell’accordo di rinnovo del C.C.N.L., l’elemento provvisorio di retribuzione cessa di essere erogato, e gli importi pagati per detto elemento provvisorio di retribuzione sono da considerarsi acconti su quanto verrà erogato con l’applicazione del rinnovato C.C.N.L. a far data dalla sua decorrenza iniziale.
Il contratto decorre dal 1° maggio 2020 e scade il 30 aprile 2023.
A decorrere dal 1° aprile 2023 è previsto un aumento dei minimi retributivi tabellari dei seguenti CCNL:
Nel mese di aprile 2023 è prevista l’erogazione di importi a titolo di “una tantum” per i dipendenti i cui rapporti di lavoro sono disciplinati dai seguenti CCNL:
L’Ispettorato Nazionale del Lavoro, con la circolare n. 1 del 15 febbraio 2023, ha stabilito che, nell’ambito del distacco transnazionale, la prova dell’avvenuto distacco è data con la consegna in fase ispettiva della richiesta di rilascio del modello A1. Questo documento è da considerarsi come equiparabile a una comunicazione obbligatoria, utile a dimostrare l’avvenuta instaurazione di un rapporto di lavoro.
Nel proprio documento, l’Ispettorato ripercorre la definizione di distacco transnazionale, per il quale si intende l’azione che comporta la trasferta o il trasferimento del lavoratore dipendente di un’azienda presso un’altra azienda con sede di lavoro all’estero.
Il rapporto di lavoro, per tutta la durata del periodo di distacco, rimane in capo all’azienda di provenienza del lavoratore.
La disciplina del distacco transnazionale è contenuta nel D.lgs. n. 136/2016, confrmemente a quanto previsto dall’ordinamento dell’Unione Europea nella Direttiva 2014/67/UE.
I datori di lavoro che distaccano i propri lavoratori subordinati presso aziende situate all’estero e i lavoratori aventi più rapporti di lavoro subordinato in diversi paesi, sono tenuti a fare richiesta telematica all’ente di previdenza sociale per il rilascio del modello A1.
Il modello A1 ha lo scopo di certificare che il lavoratore distaccato sia regolarmente iscritto presso la previdenza sociale del paese di provenienza.
In ottemperanza all’art. 10 comma 3 del D.lgs. n. 136/2016, infatti, è previsto l’obbligo in capo al datore di lavoro di conservazione della documentazione attestante il distacco fino ai 2 anni successivi al termine del rapporto. A tal proposito, l’Ispettorato si interroga su come verificare l’avvenuto distacco, qualora l’ordinamento di un paese estero non preveda la comunicazione preventiva agli enti pubblici in fase assuntiva.
L’interpretazione che è stata effettuata dall’Ispettorato riguarda la possibilità per i datori di lavoro, i quali sono impossibilitati ad avere la documentazione attestante il distacco nel paese estero, di presentare dei documenti equivalenti. L’INL ha stabilito, a tal proposito, che basti presentare la richiesta di modello A1.
La richiesta di Modello A1 attesta la sussistenza dell’iscrizione alla previdenza sociale dello stato di provenienza; quindi, è da ritenersi come documento valido ai fini dell’attestazione della regolarità del rapporto in quanto vi sono i dati identificativi dello stesso.
L’Ente stabilisce quindi che basta presentarne la richiesta effettuata, rispetto che direttamente il modello A1 stesso. Questa interpretazione serve a evitare ogni sorta di problema dovuto ad eventuali ritardi degli enti del paese straniero nel rilascio della documentazione.
L’Agenzia delle Entrate, con la risposta n. 223/2023, ha fornito alcuni chiarimenti in merito all’applicabilità dell’istituto della remissione in bonis – ex articolo 2, comma 1, del D.L. n. 16/2012 – in caso di omesso versamento ex articolo 5, comma 2-bis, del D.L. n. 34/2019, per la proroga del regime speciale per i lavoratori impatriati.
Il D.L. n. 147/2015, all’articolo 16, ha previsto che i redditi di lavoro dipendente e i redditi da lavoro autonomo prodotti in Italia da lavoratori che trasferiscono la residenza nel territorio dello Stato, concorrono alla formazione del reddito complessivo limitatamente al 30% del loro ammontare per cinque periodi di imposta al ricorrere delle seguenti condizioni:
Inoltre, per effetto dell’articolo 5 del D.L. n. 34/2019, successivamente convertito in legge, con modifiche, dalla L. n. 58/2019, che ha introdotto il comma 3-bis all’articolo 16 del D.L. n. 147/2015, il regime fiscale speciale può trovare applicazione per ulteriori cinque periodi d’imposta quando sia accertata la sussistenza dei requisiti soggettivi previsti dalla norma, ovverosia:
In entrambe le ipotesi, nel periodo di estensione dell’ambito temporale d’applicazione del regime fiscale di favore, i redditi prodotti concorrono alla formazione del reddito complessivo limitatamente al 50% del loro ammontare.
Nel quesito posto all’AdE, l’istante fa presente che, dal mese di settembre 2016 è rientrato in Italia insieme a tutto il suo nucleo familiare e di ha beneficiato, a partire dal periodo 2017, delle disposizioni dettate dall’articolo 16 del D. Lgs. n. 147/2015, nella versione del testo vigente pro tempore, il quale prevedeva la possibilità di far concorrere il reddito di lavoro dipendente alla formazione del reddito complessivo limitatamente al 50% del suo ammontare.
Successivamente al rimpatrio dell’istante, la normativa è stata soggetta a modifiche sostanziali e l’articolo 5, comma 1, del D.L. n. 34/2019 – convertito in L. n. 58/2019, c.d. Decreto Crescita – ha previsto la modifica di alcuni requisiti soggettivi ed oggetti del regime impatriati, incrementato le percentuali di riduzione dell’imponibile fiscale dei redditi agevolabili e previsto, al verificarsi di determinate condizioni, la possibilità di estensione per un ulteriore quinquennio del periodo agevolabile.
Inizialmente, tale possibilità di proroga risultava originariamente applicabile ai soli soggetti che avessero trasferito la residenza fiscale nel territorio dello Stato a decorrere dal 30 aprile 2019. In seguito, però, la Legge di Bilancio 2021 – L. 178/2020 – ha consentito l’applicazione dell’estensione agli iscritti all’Anagrafe degli italiani residenti all’estero e ai cittadini di Stati membri dell’Unione europea che avevano trasferito la residenza prima dell’anno 2020 e che alla data del 3 dicembre 2019 risultavano beneficiati del regime previsto.
L’opzione della proroga richiede il versamento di un importo pari al 10%, ovvero del 5% in presenza di determinate condizioni, dei redditi di lavoro dipendente e di lavoro autonomo agevolabili prodotti in Italia, relativi al periodo di imposta precedente a quello di esercizio dell’opzione.
L’istante, pur essendo in possesso dei requisiti per esercitare l’opzione per la proroga del regime impatriati per un ulteriore quinquennio, ”a causa di un mero errore materiale (dimenticanza) […] non ha provveduto al versamento entro il 30 giugno 2022 dell’importo”.
A fronte di tale svista, l’istante ha richiesto all’Agenzia delle Entrate di poter far ricorso all’istituto della remissione in bonis – disciplinato dall’articolo 2, comma 1 del D.L. n. 16/2012 – per sanare il mancato versamento del citato importo, propedeutico alla proroga del regime fiscale agevolato.
A fronte della richiesta avanzata dall’istante, l’AdE ha ricordato che a seguito dell’entrata in vigore della Legge di Bilancio 2021, che i contribuenti aderenti alla manovra possono beneficiare dell’estensione del regime speciale per i lavoratori “impatriati” per ulteriori cinque periodi d’imposta previo versamento di un importo pari al 10% ovvero al 5% dei redditi di lavoro dipendenti e di lavoro autonomo agevolabili in Italia, relativi al periodo d’imposta precedente a quello di esercizio dell’opzione.
Con provvedimento direttoriale pubblicato dall’Agenzia delle Entrate protocollo n. 60353/2021, l’istituto ha definito le modalità di esercizio dell’opzione, dal quale si evince che la stessa deve essere esercitata mediante il versamento in un’unica soluzione di:
L’importo deve essere versato mediante modello F24 entro il 30 giugno dell’anno successivo a quello di conclusione del primo periodo di fruizione dell’agevolazione e senza a possibilità di avvalersi di compensazione.
L’Agenzia delle Entrate, nella risposta all’interpello in esame, richiama una precedente risposta pubblicata nel luglio del 2022 – numero 383 – nella quale precisava che “l’estensione per un ulteriore quinquennio del regime speciale […] è subordinato all’esercizio dell’opzione previo versamento degli importi dovuti entro il termine indicato”. Pertanto, l’istituto ritiene che, “laddove il versamento degli importi dovuti sia omesso o carente, il mancato adempimento preclude l’applicazione del beneficio in commento”.
Alla luce di quanto sopra, l’AdE ricorda che non è consentito il ricorso all’istituto del ravvedimento operoso né tantomeno, come ipotizzato dall’istante, all’istituto della remissione in bonisprevisto dall’articolo 2, comma 1, del D.L. n. 16/2012.
Detto articolo, infatti, dispone che “la fruizione di benefici di natura fiscale o l’accesso a regimi fiscali opzionali, subordinati all’obbligo di preventiva comunicazione ovvero da adempimento di natura formale tempestivamente eseguiti, non è preclusa, sempre che la violazione non sia stata constata o non siano iniziati accessi, ispezioni, verifiche […] delle quali l’autore dell’adempimento abbia avuto formale conoscenza, laddove il contribuente:
Secondo l’AdE, l’omesso versamento delle somme dovute entro il termine del 30 giugno 2022 non è evidentemente riconducibile ad un adempimento “formale” e pertanto il contribuente non potrà regolarizzare tale adempimento mediante l’istituto della remissione in bonis.
Con la circolare n. 32/2023, l’INPS ha chiarito che la disciplina a tutela delle dimissioni entro il compimento del primo anno di età del figlio si applica anche ai lavoratori padri.
Il D.lgs. 105/2022, infatti, ha esteso anche ai padri il diritto al percepimento della NASpI in caso di dimissioni volontarie presentate durante il primo anno di vita del figlio, una volta fruito il congedo obbligatorio paternità.
Per coloro che hanno già presentato le dimissioni ma si sono visti respingere il trattamento è stata prevista la possibilità di presentare istanza di ricorso alla sede INPS territorialmente competente.
Con l’ordinanza n. 37021 del 16 dicembre 2022, la Corte Suprema di Cassazione ha affermato che spetta il risarcimento del danno al lavoratore quando, in caso di accesso al procedimento di cassa integrazione guadagni straordinaria (“CIGS”), il datore di lavoro decida discrezionalmente e senza definire i criteri di scelta la sospensione lavorativa senza un’adeguata rotazione.
I fatti di causa hanno visto un datore di lavoro ricorrere in appello dopo che, in primo grado, era stata ritenuta illegittima la sospensione in CIGS a “zero ore” di una lavoratrice. In tale grado di giudizio, la società datrice di lavoro era stata condannata al pagamento delle differenze retributive dovute alla lavoratrice stessa per i periodi di fruizione della CIGS. Dette differenze consistevano nell’integrazione del trattamento erogato da INPS da parte della società, fino ad arrivare allo stipendio intero che la lavoratrice avrebbe dovuto ricevere se avesse prestato lavoro per tutto il periodo di sospensione a “zero ore”.
Data la conferma, da parte della competente Corte di Appello, della sentenza formatasi in primo grado, il datore di lavoro ricorreva per la sua cassazione attraverso diversi motivi di ricorso. Questi venivano tutti respinti dalla Corte di Cassazione, alla luce delle considerazioni seguenti.
In merito alla prescrizione breve delle somme richieste dal lavoratore, asserita dal datore di lavoro sulla base di quanto previsto dall’articolo 2948 c.c., i giudici di legittimità hanno ritenuto che “per giurisprudenza costante, la richiesta del lavoratore di risarcimento danni per l’illegittima sospensione a seguito di collocamento in C.i.g.s. ha ad oggetto un credito da inadempimento contrattuale (costituito dall’atto di gestione del rapporto non conforme alle regole), soggetto all’ordinaria prescrizione decennale”.
Per quanto riguarda l’avvio stesso dei diversi periodi di CIGS e le motivazioni che lo hanno sorretto, la Cassazione ha osservato come gli accordi che, nel tempo, si sono succeduti propedeuticamente a ciascun avvio facessero riferimento a “esigenze tecnico-organizzative connesse al piano di riorganizzazione ma senza alcuna indicazione dei criteri in base ai quali individuare i singoli soggetti che, in ragione di quelle esigenze, andavano, di volta in volta, sospesi”. Emergeva, dunque, come il criterio adottato dal datore di lavoro risultasse “totalmente discrezionale, non concordato, non desumibile dal generico richiamo alle esigenze tecnico-produttive e, per certi aspetti, anche arbitrario”.
In sostanza, il datore di lavoro aveva “autonomamente individuato i lavoratori da sospendere senza aver dovuto rispettare predeterminati criteri che stabilissero le priorità tra i vari parametri considerati – anzianità, carichi, esigenze produttive -, le modalità applicative dei criteri medesimi, la platea dei soggetti interessati in riferimento alle qualifiche possedute e alle concrete mansioni esercitate in funzione degli obiettivi aziendali di risanamento e riorganizzazione”.
Nella sentenza della Suprema Corte viene chiaramente rappresentato come, durante un periodo di riorganizzazione e ristrutturazione aziendale con conseguente ricorso alla CIGS, vengano in capo alla parte datoriale degli specifici obblighi in tema di indicazione e comunicazione agli organismi sindacali dei criteri di scelta del personale soggetto all’integrazione salariale, nei confronti del quale deve essere garantita un’adeguata rotazione. Se ciò non viene fatto o attuato, il provvedimento di CIGS risulta illegittimo, in quanto al datore di lavoro non è consentita la scelta arbitraria dei lavoratori da sospendere.
Come noto, infatti, i criteri di scelta da considerare sono relativi ad anzianità aziendale, carichi di famiglia ed esigenze organizzative, e gli stessi devono essere parte integrante delle comunicazioni e dell’esame congiunto previsto dalla norma, come disposto dal comma 7 dell’articolo 1 della Legge 223/1991, al tempo vigente. Se questi criteri non vengono rispettati o nemmeno definiti da un accordo, il provvedimento di CIGS risulta inevitabilmente illegittimo. In particolare, secondo gli “ermellini”, il lavoratore sospeso senza che il datore di lavoro abbia attuato i criteri previsti dall’accordo sindacale ha diritto a rivendicare la responsabilità risarcitoria del datore di lavoro per l’inadempimento della clausola di “rotazione”. In questo caso, il datore di lavoro è responsabile secondo il principio della “mora del debitore”, ai sensi dell’art. 1218 c.c., a meno che questi dimostri che ciò non è avvenuto per cause di forza maggiore oppure per questioni organizzative a lui non imputabili.
L’importo dell’E.G.R. – pari a Euro 300,00 lordi per gli anni dal 2021 e seguenti, avviene con la retribuzione del mese di marzo dell’anno seguente a quello di competenza per i lavoratori in forza dal 1° gennaio al 31 dicembre dell’anno di competenza.
Con decorrenza dalla data del 1° dicembre 2021, anche a integrale copertura del periodo trascorso a titolo di carenza contrattuale 2019-2021, in favore del personale in forza nelle aziende associate nel mese di dicembre 2021, la retribuzione tabellare lorda riferita al parametro B1 è incrementata dell’importo di Euro 65,00 lordi mensili, da riparametrare sulla base della scala applicata e a cui detrarre l’I.V.C. già corrisposta dalle aziende.
Le aziende riconoscono a tutti i dipendenti, per ogni giornata di effettiva prestazione, un ticket restaurant (buono pasto) dell’ammontare giornaliero di Euro 6,50 a partire da marzo 2023. Il ticket è fissato in Euro 7,00 a far data dal mese di novembre 2023.
Per favorire l’effettività della contrattazione di secondo livello, a decorrere dal 1° gennaio 2012 ai dipendenti con contratto a tempo indeterminato in forza nelle aziende prive di contrattazione di secondo livello – escluse quelle che versino in condizioni di difficoltà economico-produttiva documentata – e che non percepiscono trattamenti economici individuali o collettivi con la medesima finalità viene riconosciuto a titolo di elemento di garanzia retributiva un importo annuale individuale di Euro 150,00 medi sul parametro 175.
Il Contratto Collettivo Nazionale di Lavoro sottoscritto in data 4 marzo 2020, decorrente dal 9 marzo 2020 ed avente validità triennale, andrà in scadenza il prossimo 9 marzo 2023.
Il Contratto Collettivo Nazionale di Lavoro sottoscritto in data 11 marzo 2020, decorrente dal 16 marzo 2020 ed avente validità triennale, andrà in scadenza il prossimo 16 marzo 2023.
È stato sottoscritto l’Accordo di Rinnovo in data 1° marzo 2021 del testo vigente a decorrere dal 1° aprile 2019 scadrà il prossimo 31 marzo 2023 sia per la parte economica, sia per la parte normativa.
La validità del CCNL, sia della parte normativa che della parte economica, è prorogata di 12 mesi, con scadenza alla data del 31 marzo 2024 e non più alla data del 31 marzo 2023 che coincide con la scadenza del C.C.N.L. dell’industria del sistema moda Italia.
A decorrere dal 1° marzo 2023 è previsto un aumento dei minimi retributivi tabellari dei seguenti CCNL:
Nel mese di marzo 2023 è prevista l’erogazione di importi a titolo di “una tantum” per i dipendenti i cui rapporti di lavoro sono disciplinati dai seguenti CCNL:
L’INPS, con la circolare n. 4 del 16 gennaio 2023, ha fornito un riepilogo delle disposizioni vigenti in tema di ammortizzatori sociali in costanza di rapporto di lavoro per l’anno 2023.
Nella propria circolare, l’ente ripercorre la normativa attinente ai principali strumenti di integrazione salariale per ciascun settore, a partire da quanto previsto da parte della Legge n. 197/2022 (di seguito, “Legge di bilancio 2023”).
La Legge di bilancio 2023 ha previsto diverse novità in materia di ammortizzatori sociali previsti per il 2023; l’INPS con la già citata circolare ne definisce i dettagli. In particolare, viene descritto quanto segue:
La circolare ha poi effettuato una ricognizione degli strumenti di integrazione salariale ad oggi vigenti, oltre che delle disposizioni in materia di sostegno al reddito e alle famiglie.
Si riporta, di seguito, una sintesi dei contenuti principali illustrati dalla circolare in argomento.
Per i lavoratori di aziende operanti in aree con crisi industriale complessa è previsto l’incremento del finanziamento del Fondo sociale per l’occupazione e formazione, istituito dalla legge n. 2/2009, pari a 250 milioni di Euro, a decorrere dall’anno 2023.
Vengono, inoltre, previste risorse per un importo pari a 70 milioni di euro per la prosecuzione dei trattamenti di sostegno al reddito (CIGS e mobilità in deroga), in favore dei lavoratori dipendenti.
Le risorse saranno ripartite tra le Regioni, tramite un decreto interministeriale, di concerto tra Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali e Ministero dell’Economia e Finanza.
Viene rifinanziato il trattamento dal Fondo sociale per occupazione e formazione, erogato secondo le istruzioni rese note con il messaggio INPS n.1495 del 4 aprile 2022. L’ indennità erogata è pari al trattamento massimo di integrazione salariale, in deroga alla normativa vigente. La misura risulta subordinata all’emanazione di specifici decreti da parte del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, contenenti i dati relativi all’azienda beneficiaria, le modalità di pagamento e il periodo di erogazione del trattamento.
Per il biennio 2023-2024 è stata disposta la proroga, delle disposizioni di cui all’art.22 bis del D.lgs. n. 148/2015, relative alle misure di sostegno al reddito tramite il trattamento straordinario di integrazione salariale.
Inoltre, in deroga all’art. 22 bis del D.lgs. n. 148/2015, per le aziende di rilevanza strategica regionale è prevista la possibilità di richiedere la fruizione del trattamento in parola oltre i limiti d legge. L’ulteriore periodo di fruizione potrà essere di 6 mesi con la causale “Crisi Aziendale”, ovvero di 12 mesi nei casi di “Riorganizzazione aziendale” e per “Contatto di Solidarietà”.
Per tutto il 2023, continueranno ad applicarsi le disposizioni dell’art. 44 comma 11-ter del D.lgs. n. 148/2015 relativamente alla possibilità di ricorre ai trattamenti di integrazione salariale straordinaria -CIGS- per situazioni di particolare difficoltà economica.
In deroga a quanto previsto dalla normativa, potranno accedere a questo istituto i datori di lavoro che hanno fruito già del periodo massimo di integrazione salariale previsto, pari a 12 mesi nel quinquennio mobile.
Si evidenzia che le precedenti disposizioni relative a CIGO e all’Assegno di Integrazione Salariale del FIS, così come descritte nella circolare INPS n. 97 del 10 agosto 2022, non sono più applicabili con decorrenza 1° gennaio 2023.
Nell’ambito delle disposizioni in materia di sostegno alle famiglie, l’articolo 1, comma 359, della legge di Bilancio 2023 ha introdotto un’importante novità in materia di congedo parentale.
È stata, infatti, prevista, per la durata massima di un mese di congedo e fino al sesto anno di vita del bambino, l’elevazione dell’indennità dal 30% all’80% della retribuzione.
In particolare, la nuova misura – che può essere fruita in alternativa tra i genitori – trova applicazione con riferimento ai lavoratori dipendenti che terminano il periodo di congedo di maternità o, in alternativa, di paternità, successivamente al 31 dicembre 2022 e sarà illustrata, nel dettaglio, con specifica successiva circolare che verrà emanata dall’INPS.
L’Agenzia delle Entrate, con la risposta n. 168 del 26 gennaio 2023, ha fornito alcuni chiarimenti in merito alla determinazione del reddito di lavoro dipendente in caso di piani di incentivazione che prevedono pagamento in azioni.
La risposta a interpello è attivata da una società residente in Italia, appartenente al gruppo internazionale che fa capo a una società tedesca, le cui azioni sono state quotate in Borsa dal 2021 a seguito di un’Offerta pubblica iniziale (Ipo).
Due propri dipendenti partecipano a dei piani di incentivazione, sostanzialmente uguali, predisposti a livello internazionale da una società del gruppo a favore delle controllate, in particolare:
Al verificarsi di alcune condizioni previste dal piano, i dipendenti hanno diritto a ricevere un pagamento in contanti esercitando un’opzione (cd. esercite notes) entro determinati termini. In alternativa, la società può decidere, a discrezione, che al posto del pagamento in contanti, ai dipendenti siano assegnate azioni (cd. Share Settlement) (da consegnare entro sei settimane dalla data di esercizio dell’opzione).
In data 4 febbraio 2021 è stata eseguita l’Ipo sulle azioni della società tedesca e i due dipendenti hanno esercitato l’opzione (22 novembre 2021), maturando il diritto a ricevere il Payout in relazione alla Virtual Shares assegnate. La società tedesca ha optato per il pagamento in azioni e le stesse sono state trasferite ai due dipendenti il 15 dicembre 2021.
La società residente in Italia -datore di lavoro- a titolo prudenziale ha determinato il reddito di lavoro dipendente, relativo alla predetta operazione e applicato le ritenute d’acconto, individuando il valore normale delle azioni alla data di esercizio dell’opzione.
Ciò premesso, la società istante chiede se, nella fattispecie, considerato che al momento dell’esercizio dell’opzione (22 novembre 2021) i dipendenti avevano diritto al pagamento di una somma di denaro e che solo a seguito della decisione della società tedesca hanno ricevuto il pagamento in azioni, il valore normale delle azioni assegnate debba essere determinato sulla base della media dei prezzi delle azioni (quotate) alla data di trasferimento delle stesse (15 dicembre 2021).
Nel fornire la risposta all’istanza di interpello, l’Agenzia delle Entrate ha richiamato anzitutto il quadro normativo di riferimento, partendo dall’art. 49 (Redditi da lavoro dipendente) del D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917 (TUIR), in base al quale i redditi di lavoro dipendente sono quelli che «derivano da rapporti aventi per oggetto la prestazione di lavoro, con qualsiasi qualifica, alle dipendenze e sotto la direzione di altri».
Inoltre, ai fini della determinazione del reddito da lavoro dipendente, l’Agenzia ricorda che il successivo art. 51 del Tuir, stabilisce che «il reddito di lavoro dipendente è costituito da tutte le somme e i valori in genere, a qualunque titolo percepiti nel periodo d’imposta, anche sotto forma di erogazioni liberali, in relazione al rapporto di lavoro».
Sulla base di quest’ultima disposizione, viene ribadito altresì che costituiscono redditi di lavoro dipendente anche i compensi in natura, tra i quali, rientra l’assegnazione di azioni di società quotate (come nel caso di specie), il cui valore normale è determinato ai sensi dell’articolo 9, comma 4, lettera a), del Tuir.
Ciò premesso, come già chiarito in passato dalla prassi fornita dall’amministrazione finanziaria -Risoluzioni n. 29/E/2001 e n. 366/E/2007, Circolare n. 54/E/2008- nell’ambito di piani di incentivazione dei dipendenti (cd. stock option), al fine di determinare quale sia il momento in cui le azioni ricevute per effetto dell’esercizio del diritto di opzione, le azioni devono considerarsi acquisite nella disponibilità del dipendente e, conseguentemente, rilevare ai fini della tassazione in capo allo stesso.
In particolare, la circolare n. 54/2008 ha chiarito che il diritto di opzione consegue alla stipula di un contratto con il quale viene attribuito ad una parte il diritto di costituire il rapporto contrattuale definitivo mediante una nuova dichiarazione di volontà. Quindi, diversamente dalla parte vincolata (il datore di lavoro) che non è tenuta a emettere altre dichiarazioni di consenso, l’opzionario (il dipendente) per l’esercizio del diritto a lui attribuito deve manifestare espressamente la volontà di addivenire alla costituzione del contratto definitivo.
Pertanto, le azioni riservate al dipendente rientrano nella sua disponibilità giuridica, risultando ad esso assegnate, nel momento in cui egli esercita il diritto di opzione, a prescindere dal fatto che la materiale emissione o consegna del titolo (o le eventuali annotazioni contabili) avvengano in un momento successivo.
Per quanto riguarda invece la determinazione della base imponibile, con la circolare del Ministero delle Finanze 17 maggio 2000, n. 98, è stato precisato che le azioni devono essere assoggettate a tassazione per un importo pari alla differenza tra il valore normale determinato ai sensi dell’articolo 9 del Tuir, al momento dell’esercizio del diritto di opzione, e quanto corrisposto dal lavoratore dipendente a fronte dell’assegnazione stessa.
Con riferimento alla fattispecie in esame, secondo quanto rappresentato nella risposta all’interpello n. 168/2023, secondo l’Agenzia delle Entrate la determinazione del momento in cui le azioni ricevute per effetto dell’esercizio del diritto di opzione, nell’ambito dei piani di incentivazione dei dipendenti, si determinare in base alla data in cui le stesse sono entrate nella disponibilità del lavoratore.
Pertanto, l’assegnazione di Virtual Shares ai dipendenti non dà diritto all’assegnazione di azioni della società tedesca, neppure a seguito della decisione (unilaterale) della stessa di eseguire il pagamento con assegnazione di proprie azioni, ma attribuisce ai dipendenti unicamente un diritto a ricevere un pagamento in contanti (Payout Entitlement) al verificarsi di determinati eventi contemplati dai piani di incentivazione, fra i quali l’operazione di IPO, avvenuta in data 4 febbraio 2021.
Di conseguenza, alla data di esercizio dell’opzione da parte dei due dipendenti (22 novembre 2021), gli stessi non avrebbero acquisito il diritto partecipativo ovvero la titolarità delle azioni che la società tedesca avrebbe successivamente assegnato (15 dicembre 2021), decidendo di eseguire il predetto pagamento in azioni.
Pertanto, tenuto conto che, ai fini della tassazione del reddito in capo ai dipendenti, rileva il trasferimento della titolarità delle azioni che, nel caso di specie, risulta essere avvenuta al momento della materiale consegna delle azioni, l’Agenzia Entrate ritiene che il valore normale delle azioni assegnate, ai sensi dell’art. 9 del TUIR, debba essere determinato al 15 dicembre 2021, data in cui la società tedesca ha deciso di eseguire il pagamento.
Al via una nuova task force composta dai consulenti di HR Capital e dal focus team compliance di De Luca & Partners per supportare le aziende nell’implementazione del nuovo Decreto
La nostra società lancia una nuova task force per supportare le aziende alle prese con il decreto legislativo sul Whistleblowing, che prevede l’obbligo – per i datori di lavoro – di implementare un sistema di tutela e protezione per gli autori di segnalazioni di reati e irregolarità nell’ambito di un rapporto professionale pubblico o privato.
Il decreto attuativo della Direttiva UE 2019/1937 riguardante la protezione della persone che segnalano violazioni di norme, introduce importanti misure per la prevenzione e il contrasto della corruzione, con standard di riservatezza assoluta del segnalante, delle persone coinvolte e del contenuto della segnalazione stessa estendendo l’obbligo di attivare un canale per la segnalazione degli illeciti a tutte le aziende con più di 50 dipendenti.
La task force avviata da HR Capital è una vera e propria practice dedicata e già operativa, anche in questa fase di pre-ufficializzazione del decreto. La task forceè statacreata in sinergia con i professionisti esperti di compliance dello Studio legale De Luca & Psrtners.
Il focus team nato da questa sinergia di competenze è in grado di offrire il necessario supporto legale al fine di affiancare le aziende clienti nell’adozione delle procedure necessarie a garantire la conformità aziendale alla normativa, mettendo altresì a disposizione un intuitivo sistema informatico SAAS con tutte le caratteristiche richieste per garantire l’implementazione di un sistema di segnalazione degli abusi e delle molestie sul lavoro, che rispetti la riservatezza e la protezione dei segnalatori. La task force, inoltre, prevede un servizio di monitoraggio costante per consentire alle aziende che tutte le segnalazioni eventualmente ricevute siano correttamente indirizzate e gestite.
«La Task Force realizzata insieme a De Luca & Partners è un ulteriore esempio della proattività che mettiamo a disposizione delle aziende anche quando si tratta di affiancarle per affrontare nel migliore dei modi le novità normative». dichiara Leonardo Zaffiri, Amministratore Delegato di HR Capital. «Una delle nostre caratteristiche peculiari, è la capacità di dare ai nostri clienti un servizio non solo di alta qualità, ma anche tempestivo: la creazione di questa task force va proprio in questa direzione anticipando, anche in questo caso, i tempi rispetto all’uscita del decreto. Il focus team, inoltre, sostiene anche le aziende che intendono ottenere la certificazione UNI PDR 125/2022, che richiede un sistema di segnalazione anonima degli abusi e delle molestie sul lavoro».
Con la sentenza n. 32130 del 31 ottobre 2022, la Corte Suprema di Cassazione si è espressa in merito alla quantificazione del risarcimento del danno spettante al lavoratore in caso di licenziamento illegittimo che, a seguito del recesso, ha avuto accesso alla pensione di anzianità.
In particolare, i fatti di causa hanno visto un lavoratore, dipendente con funzioni di dirigente presso il Ministero per i Beni e le Attività Culturali, richiedere la declaratoria di illegittimità di un decreto di detto Ministero con il quale era stato risolto il suo rapporto di lavoro a far tempo dal 4 settembre 2009, sul presupposto dell’intervenuta maturazione del requisito contributivo massimo di quaranta anni a sensi dell’articolo 72, comma 11 del D.L. 112/2008.
Il giudice del rinvio, in merito, ha osservato, sulla base del principio di diritto enunciato dalla Cassazione, che il decreto ministeriale in esame (n. 342/2009) era illegittimo; quanto ai profili risarcitori derivanti dall’illegittima risoluzione del rapporto di lavoro dirigenziale, nell’operarne una quantificazione, il giudice escludeva il ristoro del danno biologico e, con riguardo al danno patrimoniale, faceva riferimento, da un lato, alle retribuzioni perdute nel periodo tra il 3 settembre 2009 e il 31 ottobre 2010, data di scadenza del biennio di trattenimento in servizio, e, dall’altro, alla “maggiore indennità di buonuscita”. I relativi importi venivano quantificati da un CTU opportunamente incaricato.
A dire del giudice, non poteva invece essere riconosciuta, neanche sotto forma di perdita di chance, in difetto di esplicita domanda in tal senso, la retribuzione di risultato, atteso che essa “postula(va) una positiva verifica circa il conseguimento, da parte del dirigente, degli obiettivi prefissati”.
Senonché, dal complessivo importo spettante a titolo di risarcimento andavano decurtate le somme che il lavoratore, nel medesimo arco temporale, aveva comunque percepito come pensione d’anzianità, e ciò in quanto, mancando nella specie un dictum giudiziale di ripristino del rapporto di lavoro che avrebbe reso ripetibili le somme erogate dall’INPS, a dire del giudice si sarebbe verificata, in difetto di detrazione dell’aliunde perceptum, un’indebita locupletazione del lavoratore stesso.
Rispetto alla sentenza di secondo grado sopra descritta, il lavoratore proponeva ricorso in cassazione, cui il Ministero resisteva con controricorso. Tra i vari motivi, il ricorso del dirigente verteva sulla indebita detrazione di quanto corrisposto medio tempore a titolo di pensione di anzianità dal risarcimento del danno da licenziamento illegittimo, effettuata dal giudice di appello. Secondo il ricorrente, infatti, solo il compenso da lavoro percepito durante il c.d. periodo intermedio (i.e., intercorrente tra il licenziamento e la sentenza di annullamento) può comportare la riduzione del risarcimento per il principio della compensatio lucri cum damno, mentre il trattamento pensionistico non sarebbe in alcun modo ricollegabile al licenziamento illegittimo e non sarebbe detraibile anche qualora vengano, come nella specie, a cristallizzarsi gli effetti del licenziamento per effetto della mancata reintegra in servizio.
Detto motivo di ricorso è stato ritenuto fondato da parte dei giudici della Corte di Cassazione. In particolare, tra i motivi di accoglimento del ricorso, i giudici evidenziano di aver “più volte affermato il principio, da cui non v’è ragione di discostarsi, che non è detraibile come aliunde perceptum il trattamento pensionistico, potendosi considerare compensativo (quale aliunde perceptum) del danno arrecato dal licenziamento non qualsiasi reddito percepito, ma solo quello conseguito attraverso l’impiego della medesima capacità lavorativa”.
La Corte di Cassazione evidenzia, altresì, come le Sezioni Unite (Cass. S.U. n. 12194/02) abbiano, già in epoca risalente, precisato che “il diritto a pensione discende dal verificarsi di requisiti di età e contribuzione stabiliti dalla legge, prescinde del tutto dalla disponibilità di energie lavorative da parte dell’assicurato che abbia anteriormente perduto il posto di lavoro, né si pone di per sé come causa di risoluzione del rapporto di lavoro (cfr. Cass. 28 aprile 1995, n. 4747), sicché le utilità economiche che il lavoratore illegittimamente licenziato ne ritrae dipendono da fatti giuridici del tutto estranei al potere di recesso del datore di lavoro, non sono in alcun modo causalmente ricollegabili al licenziamento illegittimamente subito e si sottraggono per tale ragione all’operatività della regola della compensatio lucri cum damno”.
Pertanto, le relative somme non possono configurarsi come “un lucro compensabile col danno”, ossia come un effettivo incremento patrimoniale del lavoratore, in quanto “a fronte della loro percezione sta un’obbligazione restitutoria di corrispondente importo”.
Detta compensazione, inoltre, non può riconoscersi quando “il medesimo rapporto si ponga, invece, in termini di soggezione a divieti più o meno estesi di cumulo tra la pensione e la retribuzione, giacche’ in tali evenienze la sopravvenuta declaratoria di illegittimità del licenziamento travolge ex tunc il diritto al pensionamento e sottopone l’interessato all’azione di ripetizione di indebito da parte del soggetto che eroga la pensione”, ossia l’INPS.
La Cassazione continua illustrando come, più di recente, le Sezioni Unite (sent. n. 12564/2018) abbiano osservato che “quando la condotta del danneggiante costituisce semplicemente l’occasione per il sorgere di un’attribuzione patrimoniale che trova la propria giustificazione in un corrispondente e precedente sacrificio, allora non si riscontra quel lucro che, unico, può compensare il danno e ridurre la responsabilità”.
Pertanto, pare sussistere una ragione giustificatrice che non consente il computo della pensione di reversibilità in differenza alle conseguenze negative che derivano dall’illecito, poiché detto trattamento previdenziale “non è erogato in funzione di risarcimento del pregiudizio subito dal danneggiato, ma risponde a un diverso disegno attributivo causale, che si pone quale causa del beneficio individuabile nel rapporto di lavoro pregresso, nei contributi versati e nella previsione di legge: tutti fattori che si configurano come serie causale indipendente”.
La perdita di interesse del lavoratore alla ricostituzione del rapporto, anche de facto, mediante un provvedimento di reintegra e per effetto del raggiungimento del termine biennale di trattenimento in servizio, non esclude che vi sia la prosecuzione de iure dello stesso, considerato l’accertamento giudiziale dell’illecita risoluzione del rapporto. Dal ciò consegue – a dire della Suprema Corte e unitamente alla responsabilità risarcitoria del datore di lavoro, sul quale permane l’obbligo contributivo – la ripetibilità delle somme erogate nel biennio di riferimento a titolo pensionistico da parte dell’INPS. È seguito, pertanto, l’accoglimento del motivo di ricorso avanzato dal lavoratore da parte della Corte di Cassazione.
Il lavoro agile, meglio conosciuto come “smart working”, si è dimostrato uno strumento molto utilizzato nell’ambito della pandemia di Covid-19, soprattutto sotto il profilo del rispetto delle prassi di distanziamento interpersonale e della tutela dei soggetti “fragili”.
Terminato, in data 31 dicembre 2022, il periodo c.d. “emergenziale”, che aveva garantito un ricorso semplificato al lavoro agile, torna a tutti gli effetti in vigore la disciplina ordinaria, prevista dall’art. 18 della L. n. 81/2017.
In particolare, dal 1° gennaio 2023 è nuovamente obbligatorio procedere alla stipula di un accordo individuale di lavoro agile con ciascun lavoratore destinatario delle previsioni di smart working
Lavoro agile e accordo individuale
Giova ricordare come per lavoro agile debba intendersi una modalità di lavoro che prevede, una volta raggiunto l’accordo tra lavoratore e datore di lavoro, l’organizzazione del lavoro per cicli e obiettivi, senza precisi vincoli di luogo di lavoro e di orario, purché nel rispetto dei riposi previsti dal D.Lgs. n. 66/2003.
L’accordo di lavoro agile, ai fini della prova, deve essere stipulato per iscritto e deve contenere i seguenti elementi:
Lavoratori genitori di figli, disabili e “caregivers”
Il venir meno del lavoro agile “semplificato” ha comportato delle conseguenze sia per i lavoratori con figli che per i soggetti “fragili”. Al riguardo, in particolare, è al 31 dicembre 2022 è scaduta, per i lavoratori con figli sotto i 14 anni di età, la possibilità di eseguire la prestazione in modalità agile senza accordo individuale. Rimane, invece, per i lavoratori con le patologie previste dal D.M. del 4 febbraio 2022 classificati come “fragili”, la possibilità di svolgere la prestazione agile in modalità “emergenziale”, ossia senza accordo individuale, fino al 31 marzo 2023.
Il regime ordinario prevede, inoltre, che le seguenti categorie di lavoratori abbiano la priorità nell’accesso al lavoro agile:
Modalità e tempi della comunicazione obbligatoria
Devono essere comunicati entro cinque giorni dalla sottoscrizione dell’accordo, tramite la piattaforma cliclavoro.gov.it, i nominativi dei lavoratori che svolgono la prestazione di lavoro in modalità agile. A tal fine, il Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali ha previsto una nuova procedura di invio massivo, tramite un file Excel messo a disposizione dalla piattaforma.
L’omessa o tardiva trasmissione della comunicazione comporta l’irrogazione di sanzioni amministrative ai danni del datore di lavoro.
Infine, per i lavoratori fragili svolgenti la prestazione di smart working senza accordo individuale con scadenza entro il 31 marzo 2023, è previsto l’invio della comunicazione obbligatoria in modalità “semplificata” entro il 31 gennaio 2023. Dopo tale data, stante l’attuale normativa, sarà necessario utilizzare la modalità ordinaria.
In data 29 dicembre 2022 è stata pubblicata in Gazzetta Ufficiale la Legge n. 197/2022, rubricata “Bilancio di previsione dello Stato per l’anno finanziario 2023 e bilancio pluriennale per il triennio 2023-2025” (di seguito, “Legge di Bilancio”). La nuova disposizione legislativa è intervenuta in materia di previdenza sociale prorogando la possibilità di ricorrere ad alcuni istituti e graduando l’utilizzo di altri, in attesa della riforma del sistema che dovrebbe intervenire dal 2024.
Pensione anticipata “Quota 103”
Con l’articolo 14 del D.L. n. 4/2019, successivamente convertito in L. n. 26/2019, a decorrere dal 2019 e fino al 31 dicembre 2021, in via sperimentale, è stata introdotta la possibilità di accedere alla pensione anticipata con il sistema di “Quota 100”, in presenza di 38 anni di contribuzione e 62 anni di età. Successivamente, per l’anno 2022, il predetto requisito è stato elevato di due anni e il pensionamento anticipato con il sistema delle quote poteva essere perfezionato entro il 31 dicembre 2022 con “Quota 102”, stante il requisito di età anagrafica innalzato a 64 anni in luogo dei precedenti 62 anni.
Dal 2023, per la durata sperimentale di un anno, la Legge di Bilancio ha introdotto la pensione “Quota 103”, in sostituzione di Quota 102, a favore degli assicurati a tutte le gestioni previdenziali, ad esclusione degli iscritti alle Casse previdenziali dei professionisti, che perfezionino un’età di almeno 62 anni e maturino un’anzianità contributiva di almeno 41 anni, con la possibilità di conseguire tali requisiti entro la fine dell’anno.
I destinatari di questa disposizione sono tutti i lavoratori dipendenti o autonomi iscritti all’assicurazione generale obbligatoria (“AGO”), nelle forme esclusive e sostitutive della stessa gestite dall’INPS – ovverosia spettacolo, sportivi professionisti ex ENPALS e giornalisti ex INPGI – e i soggetti iscritti alla Gestione Separata. La contribuzione utile al raggiungimento dei 41 anni di anzianità contributiva è quella accreditata alle precedenti gestioni sopra esposte, anche in regime di cumulo, fermo restando l’ulteriore requisito dei 35 anni di contribuzione utile per il diritto alla pensione, dai quali sono esclusi i periodi di malattia e disoccupazione.
Per i soggetti in possesso dei requisiti previsti, a seguito di richiesta, la regola generale è che la decorrenza utile del trattamento è fissata al primo giorno del mese successivo all’apertura della c.d. “finestra”, che, a sua volta, si apre trascorsi tre mesi dal perfezionamento dei requisiti. In particolare:
È bene precisare che la normativa prevede che l’importo dell’assegno erogato per la pensione anticipata non potrà risultare superiore a cinque volte il trattamento minimo previsto. Pertanto, l’importo mensile lordo massimo che potrà essere erogato non potrà eccedere l’importo di Euro 2.818,70. Solo al raggiungimento del requisito anagrafico per l’accesso alla pensione di vecchiaia, attualmente previsto al conseguimento del 67° anno di età, l’importo in pagamento sarà adeguato all’ammontare effettivamente maturato al momento dell’accesso a “Quota 103”.
Infine, così come già disposto in passato, la previsione normativa ha previsto che l’assegno di pensione anticipata sia incumulabile, dal giorno della decorrenza della pensione e fino alla maturazione dei requisiti per l’accesso alla pensione di vecchiaia, con i redditi di lavoro autonomo e dipendente conseguiti anche all’estero, ad eccezione di quelli derivanti da lavoro autonomo occasionale, nel limite di 5.000 euro lordi annui.
Opzione donna
Contrariamente a quanto previsto in tema di Quota 103, l’entrata in vigore della Legge di Bilancio ha radicalmente modificato le regole di accesso a Opzione donna rispetto a quelle in vigore nel 2022.
La Legge di Bilancio ha stabilito, infatti, di non prorogare tale modalità di uscita dal lavoro negli stessi termini della precedente proroga, cioè con 35 anni di contribuzione più un’età anagrafica di 58 anni per le lavoratrici dipendenti e 59 anni per quelle autonome, ma ha modificato il requisito anagrafico ed introdotto ulteriori requisiti soggettivi.
Per quanto concerne il requisito anagrafico, secondo le nuove disposizioni, possono accedere a opzione donna le lavoratrici che abbiano maturato, entro il 2022, almeno 35 anni di contributi e almeno 60 anni di età anagrafica. Il nuovo testo normativo ha semplificato i requisiti anagrafici previsti eliminando il differente requisito d’età a seconda che il soggetto richiedente fosse una lavoratrice autonoma o dipendente. Inoltre, è stato previsto che il requisito anagrafico possa essere ridotto a 59 anni in presenza di almeno un figlio e a 58 anni in caso di almeno due figli.
La grande novità introdotta dalla Legge di Bilancio è che, anche in caso di possesso dei requisiti di anzianità contributiva e d’età, è fatto obbligo per le richiedenti rientrare in una delle seguenti categorie:
Permangono le modalità di calcolo precedentemente applicate le quali prevedevano che, ai fini della determinazione dell’importo mensile dell’assegno di pensione verranno applicati i criteri di calcolo contributivo anche se, per anzianità, le richiedenti avrebbero diritto al metodo misto. Ai fini dell’effettiva percezione dell’assegno mensile, tra la maturazione del diritto e la decorrenza della pensione devono trascorrere 12 mesi per le lavoratrici dipendenti e 18 per quelle che hanno contributi anche o solo come autonome.
Con la sentenza n. 30167 del 13 ottobre 2022, la Corte Suprema di Cassazione ha rigettato il ricorso presentato da un datore di lavoro a seguito del riconoscimento dell’illegittimità del licenziamento per giustificato motivo oggettivo inflitto ad un lavoratore.
La Corte distrettuale, inoltre, aveva rilevato che al lavoratore fosse stata assegnata una mansione riconducibile ad un livello di inquadramento inferiore rispetto alla propria qualifica, in violazione dell’art. 2103 del Codice civile.
In particolare, i fatti di causa hanno visto un lavoratore che, da capoturno di pattuglie di guardie giurate, veniva licenziato a seguito della perdita di un appalto.
I motivi su cui si è basata la decisione della Suprema Corte si trovano nella “manifesta insussistenza” del fatto che ha originato il licenziamento, il quale – a seguito dell’istruttoria svolta nei diversi gradi di giudizio – non è risultato legato da un nesso causale alla soppressione del posto di lavoro cui il lavoratore è stato assegnato in forza di un atto nullo. A fronte di ciò, ha trovato applicazione la tutela reintegratoria, come previsto dal comma 7 dell’art. 18 della legge n. 300/1970 e l’azienda è stata condannata, inoltre, al pagamento delle spese della lite.
Il datore di lavoro ha presentato ricorso articolato per sei motivazioni, le quali hanno riguardato principalmente la “manifesta insussistenza” del fatto e l’eccessiva onerosità della reintegrazione, prevista dal menzionato articolo 18.
In particolare, l’azienda ha denunciato la violazione, da parte della Corte distrettuale, del principio di diritto espresso dalla Cassazione in sede di annullamento con riguardo alla ricostruzione ermeneutica del concetto di “manifesta insussistenza” del fatto posto a base del licenziamento (ai sensi dell’art. 18, comma 7 della legge n. 300 del 1970), la quale sarebbe stata effettuata “senza l’indagine sia sulla “evidente e facilmente verificabile” carenza del nesso di causalità tra assegnazione (nulla) alla postazione e successiva soppressione del posto sia sulla eccessiva onerosità della reintegrazione”.
La ricorrente, inoltre, ha dedotto omesso esame di un fatto decisivo discusso tra le parti, avendo la Corte distrettuale trascurato – ai fini della valutazione della “eccessiva onerosità della reintegrazione” – che presso la centrale operativa cui il lavoratore era addetto non vi erano posizioni di capoturno disponibili e che in base alla declaratoria del 3° livello di cui al CCNL Vigilanza non potevano essere più assegnate mansioni di capoturno.
Tanto rappresentato dall’azienda ricorrente, la Suprema Corte ha comunque ritenuto infondati i diversi motivi di ricorso. In particolare, questa ha illustrato come l’art. 18, comma 7, della legge n. 300/1970 – che regola l’apparato sanzionatorio da applicare in caso di accertamento della illegittimità di un licenziamento per giustificato motivo oggettivo – sia stato “inciso da due recenti sentenze della Corte costituzionale, successive alla pronuncia rescindente, proprio con riguardo ai requisiti per l’applicazione della tutela reintegratoria”.
In particolare, la Corte costituzionale, con la sentenza n. 59 del 1° aprile 2019, ha dichiarato l’illegittimità del comma 7 dell’art. 18 della legge n. 300/1970, nella parte in cui prevede che il giudice, quando accerti la manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, «può altresì applicare» – invece che «applica altresì» – la disciplina di cui al medesimo art. 18, quarto comma; la sentenza n. 125 del 2022, altresì, ha dichiarato l’illegittimità del medesimo comma ove si prevede l’insussistenza del fatto posto a base del licenziamento, limitatamente al termine “manifesta”.
In virtù di quanto espresso dalla Corte costituzionale, la Cassazione ha evidenziato che laddove il giudice accerti l’insussistenza del fatto posto a base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, debba essere sentenziato l’annullamento del licenziamento e ordinata la reintegrazione del lavoratore, “senza alcuna facoltà di scelta tra tutela ripristinatoria e tutela economica”. Pertanto, l’apprezzamento della sussistenza dei vizi denunciati con il ricorso dev’essere fatto con riferimento alla situazione normativa determinata dalla pronuncia di incostituzionalità.
Sul punto, la Suprema Corte ha evidenziato che la valutazione della fondatezza o meno del ricorso per cassazione deve farsi con riferimento “alla situazione normativa determinata dalla pronuncia di incostituzionalità, essendo irrilevante che la decisione impugnata o la stessa proposizione del ricorso siano anteriori alla pronuncia del giudice delle leggi, atteso che gli effetti della dichiarazione di incostituzionalità di una norma retroagiscono alla data di introduzione nell’ordinamento del testo di legge dichiarato costituzionalmente illegittimo”.
Posto che i primi cinque motivi di ricorso vertono tutti sulla ricorrenza di due requisiti attinenti al regime sanzionatorio del licenziamento per giustificato motivo oggettivo non sono più vigenti, i suddetti motivi sono stati rigettati.
La Corte distrettuale ha, inoltre, rilevato che l’accertamento circa la illiceità del fatto posto a fondamento con il recesso era da ritenersi definitivo, in quanto deve ritenersi totalmente insussistente il fatto materiale che ha determinato il licenziamento dipendente, posto come non vi sia stata una lecita adibizione dello stesso all’appalto, non potendo perciò un fatto illecito essere posto a fondamento, in un vincolo di causalità, con il recesso per giustificato motivo oggettivo.
In altre parole, il fatto “perdita dell’appalto” – a dire della Suprema Corte – non può giustificare il licenziamento del lavoratore che non poteva esservi assegnato. Da questo è conseguita la piena integrazione dell’unico requisito richiesto dall’art. 18, comma 7, della legge n. 300/1970 (nel testo a seguito dei due interventi della Corte costituzionale) per l’applicazione della tutela reintegratoria.
Il datore di lavoro è stato dunque condannato a pagare a favore del lavoratore indennità e contributi dovuti per il periodo intercorso tra la risoluzione del rapporto e la reintegrazione effettiva, fino a un massimo di dodici mensilità.
Il Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, di concerto con il Ministero per le Pari Opportunità e la Famiglia e con il Ministero dell’Economia e delle Finanze, ha emanato il Decreto 20 ottobre 2022, riguardante l’esonero contributivo per le aziende private che abbiano conseguito la certificazione di parità di genere e ulteriori interventi per la promozione della parità salariale di genere e della partecipazione delle donne al mercato del lavoro, in attuazione della Legge n. 162/2021, articolo 5, comma 2, e dell’art. 1, comma 138,Legge n. 234/2021.
Al fine di attuare le disposizioni contenute negli articoli precedentemente richiamati, il decreto in esame ha definito:
Il decreto, all’articolo 2, prevede che le aziende private che abbiano conseguito la certificazione di parità di genere, a partire dal 2022, possano beneficiare di un esonero contributivo così come disciplinato dagli articoli 3 e 4 del testo in esame. L’esonero potrà essere applicato per tutta la durata del periodo di validità della predetta certificazione.
Il beneficio, per i datori di lavoro, consiste nella possibilità di fruire di una riduzione nella misura dell’1% dei complessivi contributi previdenziali a proprio carico, fermo restando il limite massimo di Euro 50.000,00 su base annua. Qualora, in relazione ad un copioso numero di domande presentate, le risorse stanziate dovessero risultare insufficienti, il beneficio riconosciuto alle aziende sarebbe proporzionalmente ridotto.
Lo sgravio contributivo, secondo le disposizioni contenute nel decreto, sarà riparametrato su base mensile e fruito dai datori di lavoro in riduzione dei contributi previdenziali a loro carico, sulle mensilità relative al periodo di validità della certificazione della parità di genere. La validità della certificazione ha durata triennale ed è soggetta a monitoraggio annuale da parte di INPS. È bene precisare che le rappresentanze sindacali aziendali e i consiglieri e le consigliere di parità potranno, in base al D.M. del 29 aprile 2022, segnalare all’organismo di certificazione eventuali criticità riscontrate nell’azienda certificata.
Secondo quanto previsto dall’articolo 3, ai fini dell’ammissione all’esonero le aziende del settore privato, per il tramite del rappresentante legale o di un intermediario delegato, dovranno presentare domanda telematica all’INPS secondo le modalità operative che verranno poi indicate dall’Ente mediante specifiche istruzioni.
Le domande dovranno contenere le informazioni riguardanti:
È bene precisare che, nel caso in cui sia disposta la revoca della certificazione, le imprese interessate saranno tenute a darne tempestiva comunicazione all’INPS e al Dipartimento per le pari opportunità.
Qualora un’impresa dovesse beneficiare indebitamente dell’esonero contributivo, questa sarà tenuta al versamento dei contributi non dovuti a fronte della riduzione contributiva, nonché al pagamento delle sanzioni previste dalle disposizioni di legge in materia. Resta salva l’eventuale responsabilità penale ove il fatto costituisca reato.
L’Elemento di Garanzia Retributiva, pari a Euro 300,00 lordi uguale per tutti i lavoratori, va erogato con la retribuzione dei mesi di gennaio di ogni anno ai lavoratori in forza il 1° gennaio di ogni anno ed aventi titolo in base alla situazione retributiva individuale rilevata nell’anno precedente, con assorbimento fino a concorrenza del valore dell’E.G.R. di quanto individualmente erogato.
Le Parti si impegnano ad istituire una Cassa rischio vita in favore degli Operai Agricoli a Tempo Indeterminato attraverso apposito accordo da definirsi entro il 31 dicembre 2022.
La prestazione – che verrà riconosciuta per gli eventi verificatisi a decorrere dal 1° gennaio2023 – avrà natura sperimentale. L’accordo dovrà definire i requisiti e le condizioni per l’accesso alle prestazioni, la misura dell’indennità, la copertura assicurativa e il coordinamento con le prestazioni già erogate dal Fisa.
Le aziende che non realizzano la contrattazione del premio per obiettivi di cui all’art. 55 del C.C.N.L., erogano, a titolo di indennità per mancata contrattazione di secondo livello a favore dei lavoratori dipendenti, gli importi di cui alla tabella riportata nel testo del CCNL.
Tali importi, erogati a partire dal 1° gennaio 2023 per 12 mensilità, assorbono fino a concorrenza eventuali erogazioni svolgenti funzione analoga agli istituti di cui sopra.
In sostituzione delle soppresse festività di cui alla L. 5.3.1977, n. 54 e del relativo trattamento, ai lavoratori spettano, nel corso di ciascun anno, quattro giorni di permesso individuale retribuito non frazionabile, salvo quanto previsto al successivo paragrafo. A far data dal 1° gennaio 2023, nell’ottica di agevolare la conciliazione dei tempi di vita con i tempi di lavoro, anche come strumento di maggiore attrattività verso il personale neoassunto, ai soli lavoratori con anzianità di servizio fino a 8 anni è consentita la frazionabilità in ore, per periodi comunque non inferiori ad un’ora, di uno dei suddetti quattro giorni di permesso individuale retribuito.
Allo scopo di sviluppare il sistema di Welfare contrattuale, con decorrenza dal 1° gennaio 2023, il contributo annuo a carico azienda per il finanziamento del Fondo T.P.L. Salute è pari a Euro 144,00 (Euro 12,00/mese, comprensive del contributo annuo stabilito dall’art. 38 lett. b) dell’A.N. 28 novembre 2015) per ogni lavoratore in forza a tempo indeterminato, ivi compresi gli apprendisti.
Le Parti, riconoscono l’Ente Nazionale per l’Istruzione Professionale Grafica (Enipg) quale organismo atto a provvedere allo studio, alla promozione e al coordinamento delle iniziative dirette a favorire lo sviluppo tecnico e professionale del settore. A decorrere da gennaio 2022 viene istituto un contributo di assistenza contrattuale. Le aziende del settore cartotecnico sono tenute all’iscrizione a decorrere da gennaio 2022.
Al contributo non sono tenute le aziende cartarie e del converting del tissue.
A decorrere dal 1° gennaio 2023, in favore dei lavoratori dipendenti iscritti al Fondo Byblos, è riconosciuto un contributo aggiuntivo a carico del datore di lavoro pari allo 0,3% della normale retribuzione annua.
Con decorrenza dal 1° gennaio 2023, verranno applicate le nuove percentuali in caso di lavoro straordinario notturno.
Con riferimento agli addetti all’industria delle imprese produttrici di ceramica sanitaria, di porcellane e ceramiche per uso domestico e ornamentale, di ceramica tecnica, di tubi in gres con rapporti di lavoro disciplinati sino al 13 marzo 2008 dal contratto collettivo per gli addetti all’industria chimica (si veda Capitolo VII – Parte IX -”Welfare di settore” – “Previdenza Complementare”) – le Parti concordano che l’ammontare dell’aliquota di contributo a Foncer per la sola parte a carico del datore di lavoro – come disciplinata nel CCNL 16 novembre 2016 cui si rinvia – sia incrementato dello 0,1% a decorrere dal 1° gennaio 2022 e di un ulteriore 0,1% dal 1° gennaio 2023, da calcolarsi sulla retribuzione utile ai fini del calcolo del TFR.
L’Elemento di garanzia retributiva sarà pari a Euro 8,00 (otto/00) mensili a decorrere dal 1° gennaio 2023.
A decorrere dal 1° gennaio 2023 al dirigente viene riconosciuta, attraverso apposita polizza assicurativa, con premio a carico del datore di lavoro e con un limite massimo di Euro 70,00 annui, la copertura delle spese legali sostenute in caso di procedimenti penali relativi a fatti direttamente connessi con l’esercizio delle funzioni attribuite, non dipendenti da colpa grave o dolo.
Il contributo annuo a carico dell’impresa che aderisce a forme alternative per l’assistenza dei dirigenti in servizio (contributo ex art. G) è elevato a Euro 2.500,00 (duemilacinquecento/00) a decorrere dal 2023.
A partire dal 1° gennaio 2023 viene estesa a tutti i lavoratori l’assicurazione contro il rischio di responsabilità civile verso terzi nello svolgimento delle proprie mansioni contrattuali. Da tale copertura assicurativa sono esclusi i casi di dolo o colpa grave del dipendente.
Il lavoratore ha diritto, per ogni anno di servizio, ad un periodo di riposo proporzionale ai mesi di servizio prestati nell’anno. A partire dal 1° gennaio 2023, al dipendente spetteranno (i) 20 giorni lavorativi, se con anzianità fino a 6 anni compiuti e (ii) 1 giorno lavorativo per ogni anno di anzianità oltre i 6 anni fino ad un massimo di 24 giorni lavorativi.
A partire da gennaio 2023, il preavviso nei confronti dei lavoratori in possesso dei requisiti previsti dalla legge per il pensionamento di vecchiaia è pari ad 8 giorni di calendario.
A decorrere dal 1° gennaio 2023, le Aziende versano ai Fondi di previdenza complementare di competenza operanti nel settore, ad incremento della misura della contribuzione a carico Azienda, un importo aggiuntivo in misura fissa pari a Euro 3,00 per ogni mensilità.
Con decorrenza dalla data del 1° gennaio 2021, anche a integrale copertura del periodo trascorso a titolo di carenza contrattuale 2019-2021, in favore del personale in forza nelle aziende associate nel mese di dicembre 2021, la retribuzione tabellare lorda riferita al parametro B1 è incrementata dell’importo di euro 65,00 lordi mensili, da riparametrare sulla base della scala applicata e a cui detrarre l’I.V.C. già corrisposta dalle aziende. Le Parti convengono che gli arretrati derivanti dall’incremento retributivo sopra richiamato, saranno erogati dalle aziende associate in favore dei lavoratori con le seguenti modalità temporali: (i) 1/3 degli arretrati a gennaio 2023; (ii) 1/3 degli arretrati con lo stipendio di marzo 2023; (iii) 1/3 degli arretrati con lo stipendio di maggio 2023.
Le Società del Gruppo FS Italiane assicureranno tutto il personale dipendente alla forma di assistenza sanitaria integrativa, ivi compresa la tutela del reddito per i lavoratori riconosciuti inidonei in via definitiva dalla struttura competente di R.F.I. (Direzione Sanità) alle mansioni per cui erano stati assunti od a cui erano stati successivamente adibiti, per infortunio sul lavoro o malattia professionale o a causa di gravi patologie, che sarà individuata entro il 31 dicembre 2022, tra i soggetti su scala nazionale che garantiranno la migliore offerta di prestazioni a fronte di un contributo aziendale per ciascun lavoratore stabilito in euro 300,00 per anno, a decorrere dal 1° gennaio 2023.
Il Fondo Eurofer è il fondo di previdenza complementare per i lavoratori delle Società del Gruppo Ferrovie dello Stato Italiane. A far data dal 1° gennaio 2023, il contributo a carico del datore di lavoro e del lavoratore associato è dovuto nella misura di: (i) 1% a carico del lavoratore e (ii) 2% a carico del datore di lavoro.
In attuazione del comma 2 dell’art. 37 (Welfare) del C.C.N.L. Mobilità/Area AF, le Società del Gruppo FS Italiane destinano la somma annua di Euro 100,00 di costo aziendale al Fondo Eurofer, per ogni lavoratore occupato a tempo indeterminato, compresi i lavoratori con contratto di apprendistato professionalizzante.
A decorrere dal 1° gennaio 2023 sono previste modifiche alla disciplina contrattuale da applicare ai contratti di lavoro in apprendistato stipulati a partire dal 1° gennaio 2023.
Dal 1° gennaio 2023 l’impegno di reperibilità è limitato a 10 giorni/mese di servizio pro-capite. I compensi sono maggiorati del 15% per le giornate eccedenti il decimo giorno/mese. Semestralmente viene attivata una verifica con la R.S.U. sulle eccedenze medie. Nei confronti del personale reperibile che di norma svolge la propria attività da remoto utilizzando gli strumenti aziendali, senza doversi recare sul luogo dell’intervento, viene riconosciuto un importo aggiuntivo per ciascuna giornata di reperibilità pari a Euro 5,00 che si eleva a Euro 6,00 dal 1° gennaio 2023.
L’Elemento di Garanzia Retributiva è pari a Euro 230,00 lordi annui per gli anni 2021 e 2022 e di Euro 250,00 lordi annui per l’anno 2023, uguale per tutti i lavoratori. Va erogato, al più tardi, con la retribuzione del mese di gennaio 2022, gennaio 2023 e gennaio 2024 ai lavoratori in forza al 1° gennaio di ogni anno ed aventi titolo in base alla situazione retributiva individuale rilevata nell’anno precedente, con assorbimento fino a concorrenza del valore dell’E.G.R. di quanto individualmente erogato.
Fino al 31 dicembre 2022 trova applicazione il Contratto sottoscritto tra le Parti in data 8 marzo 2017. Il Contratto 16/11/2022 ha validità dal 1° gennaio 2023 al 31 dicembre 2026. Alla sua scadenza le Parti procederanno alla rinnovazione del contratto quadriennale.
Per il fondo Byblos l’aumento della contribuzione a carico aziende per i lavoratori aderenti che non hanno l’ERC è previsto nella misura dello 0,5 a decorrere da gennaio 2023.
Dal 1° gennaio 2023 è fissato in Euro 65,00 ovvero euro 5,00 mensili per 13 mensilità, il contributo annuo a carico di ogni dipendente al Fondo di accompagno all’esodo.
A decorrere dal 1° gennaio 2023 l’importo dell’elemento di garanzia retributiva è di Euro 210,00 lordi annui.
A decorrere dal 1° gennaio 2023, le aziende verseranno al Fondo Previambiente una quota contributiva ulteriore in cifra fissa di Euro 5,00 per 12 mensilità, destinata esclusivamente alla copertura assicurativa dei casi di premorienza ed invalidità permanente certificata dagli enti competenti che comporti cessazione del rapporto di lavoro, che il Fondo è impegnato a realizzare in favore di tutti i lavoratori aderenti cui si applica il presente CCNL.
1° gennaio 2023, le aziende verseranno al Fondo Previambiente una quota contributiva ulteriore in cifra fissa di Euro 5,00 per 12 mensilità, destinata esclusivamente alla copertura assicurativa dei casi di premorienza ed invalidità permanente certificata dagli enti competenti che comporti cessazione del rapporto di lavoro, che il Fondo è impegnato a realizzare in favore di tutti i lavoratori aderenti cui si applica il presente CCNL.
Allo scopo di sviluppare il sistema di Welfare contrattuale, con decorrenza dal 1° gennaio 2023, il contributo annuo a carico dell’azienda per il finanziamento del Fondo T.P.L. Salute è pari a Euro 144,00 (12,00/mese, comprensive del contributo annuo stabilito dall’art. 67 del C.C.N.L. 26 luglio – 14 settembre 2018), per ogni lavoratore in forza a tempo indeterminato non in prova, ivi compresi gli apprendisti.
A partire dal 1° gennaio 2023, l’articolo 51 bis del CCNL prevede la sostituzione della tabella del contratto Alimentare relativa al trattamento economico per mancata contrattazione di secondo livello.
Le aziende a decorrere dal 1° gennaio 2023, sono tenute, al primo gennaio di ogni anno, a mettere a disposizione dei lavoratori, che abbiano superato il periodo di prova, strumenti di welfare per un importo annuo pari ad Euro 100,00 da utilizzare entro il 30 novembre dell’anno successivo. Tale importo va proporzionalmente ridotto in caso di contratto part-time ed in base ai mesi di anzianità di ogni lavoratore nel periodo intercorrente dal 1° gennaio al 31 dicembre dell’anno precedente. I lavoratori avranno la possibilità di destinare l’importo suddetto al Fondo di Previdenza Complementare Intersettoriale.
Al lavoratore chiamato a prestare la propria opera in trasferta sia impossibilitato a consumare il pasto nelle ore comprese tra le 12 e le 15 e/o le 19 e le 22, in sostituzione del piè di lista, è riconosciuto un concorso spese di complessive di Euro 13,00 per ogni pasto. Tale indennità è pari ad Euro 15,00 dal 1° gennaio 2023.
Anche a favore dei Dirigenti compresi nella sfera d’applicazione del presente Contratto, è operante il Welfare Contrattuale, come previsto dal presente CCNL, con costo minimo dal 2023 di Euro 720,00/anno.
L’Elemento di Garanzia Retributiva, pari a Euro 300 lordi uguale per tutti i lavoratori, va erogato con la retribuzione dei mesi di gennaio di ogni anno ai lavoratori in forza il 1° gennaio di ogni anno ed aventi titolo in base alla situazione retributiva individuale rilevata nell’anno precedente, con assorbimento fino a concorrenza del valore dell’E.G.R. di quanto individualmente erogato.
A partire dal 2023, il datore di lavoro erogherà al lavoratore, entro il 31 dicembre di ogni anno, il Welfare Contrattuale pari ai valori riportati nel testo del CCNL di riferimento.
A decorrere dal 1° gennaio 2023 è previsto un aumento dei minimi retributivi tabellari dei seguenti CCNL:
Nel mese di gennaio 2023 è prevista l’erogazione di importi a titolo di “una tantum” per i dipendenti i cui rapporti di lavoro sono disciplinati dai seguenti CCNL:
L’emanazione del Decreto legislativo n. 105/2022 (c.d. “Decreto Equilibrio”), in attuazione della direttiva (UE) 2019/1158 del Parlamento europeo e del Consiglio, ha previsto novità in tema di congedi familiari. In particolare, sul punto, la nota n. 2414 del 6 dicembre 2022 dell’Ispettorato Nazionale del Lavoro ha adeguato il regime sanzionatorio ai nuovi obblighi imposti ai datori di lavoro in tema di fruizione di congedi familiari da parte dei dipendenti.
Tra le varie misure, l’articolo 27 del decreto in argomento riconosce ai neo-padri un periodo di astensione obbligatoria dal lavoro pari a 10 giorni lavorativi (raddoppiati in caso di parto gemellare), con retribuzione al 100% a carico di INPS. Tale periodo deve esser richiesto al datore di lavoro per iscritto e con un preavviso non inferiore a cinque giorni, salvo condizioni di miglior favore previste dal CCNL applicato al rapporto di lavoro.
Sono inoltre state previste ulteriori misure relative all’equilibrio tra attività professionale e vita familiare per i genitori e i prestatori di assistenza, allo scopo di ottimizzare la conciliazione tra i due detti ambiti e di conseguire una più equa condivisione delle responsabilità e dei compiti di cura tra uomini e donne, promuovendo una effettiva parità di genere sia in ambito lavorativo che familiare e favorendo il superamento degli stereotipi.
Le disposizioni contenute nel decreto sopra menzionato, nelle intenzioni del legislatore, costituiscono dunque una riforma organica delle tutele e dei diritti preesistenti in materia di cura dei familiari e di conciliazione dei tempi di vita e lavoro, attuata mediante l’aggiornamento, il riordino e l’innovazione dell’assetto normativo sul tema.
L’INL, nella sua nota, ha illustrato che, in caso di ostacolo o rifiuto da parte del datore di lavoro nel far usufruire dei congedi ai lavoratori, trovi applicazione una sanzione ammnistrativa da 516,00 Euro a 2.582,00 Euro. Inoltre, la violazione potrebbe costituire per il datore di lavoro un impedimento per l’ottenimento della certificazione di parità di genere.
In caso di ostacolo o rifiuto da parte del datore di lavoro di far usufruire al padre del congedo alternativo per le gravi situazioni (es. morte della madre), è punito con la sanzione penale dell’arresto fino a sei mesi e con il mancato conseguimento della certificazione di parità di genere.
Per la violazione del divieto di licenziamento da parte del datore di lavoro del neo-padre fino al complimento dell’anno del bambino, oltre che la nullità del licenziamento e tutto ciò che comporta, si applica la sanzione amministrativa da 1.032,00 Euro a 2.582,00 Euro. Si applica la medesima sanzione ammnistrativa nel caso in cui sia violato il diritto alla conservazione del posto di lavoro.
Scatta, infine, la sanzione amministrativa da 516,00 Euro a 2.582,00 Euro nei casi di inosservanza dei riposi giornalieri per madre e padre, nonché per i figli portatori di handicap.
Viene precisato dall’INL che, nel regime transitorio per le nascite avvenute prima del 13 agosto 2022 (data di entrata in vigore del decreto in esame), valgono le tutele previste dal decreto per il diritto all’erogazione dell’indennità di mancato preavviso in caso di dimissioni entro l’anno del bambino e il divieto di licenziamento.
Vengono estesi, inoltre, i diritti di assistenza previsti per il coniuge e gli affini anche ai conviventi di fatto e alle unioni civili, previsti dalla Legge 104/1992.
La nota chiarisce, infine, che la richiesta dei congedi previsti di diritto da parte dei lavoratori, deve essere compatibile con il funzionamento ordinario dell’impresa, coordinandosi altresì con le esigenze della parte datoriale.