L’INPS, con la circolare n. 12 del 26 gennaio 2022, ha illustrato l’ambito di applicazione del D.M. 23 dicembre 2021, che ha individuato le retribuzioni convenzionali da prendere a base per il calcolo dei contributi dovuti per le assicurazioni obbligatorie dei lavoratori italiani operanti all’estero.
Ai fini previdenziali, le retribuzioni convenzionali devono essere prese a riferimento per il calcolo dei contributi previdenziali dovuti dai lavoratori operanti in Paesi extracomunitari non legati all’Italia da accordi di sicurezza sociale. Dette retribuzioni si applicano sia ai lavoratori cittadini italiani che ai lavoratori cittadini stranieri, titolari di un regolare titolo di soggiorno e di un contratto di lavoro in Italia, inviati dal proprio datore di lavoro italiano in un Paese extracomunitario.
È utile ricordare che le retribuzioni convenzionali trovano applicazione, residuamene, anche nei confronti dei lavoratori inviati in Paesi convenzionati con l’Italia dal punto di vista previdenziale, con riferimento alle sole assicurazioni non incluse negli accordi di sicurezza sociale vigenti.
Dal punto di vista operativo, l’INPS rammenta che “per i lavoratori per i quali sono previste fasce di retribuzione, la retribuzione convenzionale imponibile è determinata sulla base del raffronto con la fascia di retribuzione nazionale corrispondente”, di cui alle tabelle individuate con riferimento ai contratti collettivi nazionali di lavoro in vigore per le diverse categorie.
Ai fini dell’attuazione della disposizione relativa alle fasce di retribuzione, viene precisato che per “retribuzione nazionale” si intende “il trattamento previsto per il lavoratore dal contratto collettivo, comprensivo degli emolumenti riconosciuti per accordo tra le parti, con esclusione dell’indennità estero”. L’importo così calcolato deve essere diviso per dodici e, raffrontando il risultato del calcolo con le tabelle del settore corrispondente, deve essere individuata la fascia retributiva da prendere a riferimento ai fini degli adempimenti contributivi.
I valori convenzionali individuati in virtù del calcolo descritto dall’INPS possono essere ragguagliati a giornata solo in caso di assunzione, di risoluzione del rapporto, di trasferimento nel corso del mese. In tali fattispecie, l’imponibile mensile deve essere diviso per 26 giornate e, successivamente, il valore ottenuto deve essere moltiplicato per il numero dei giorni compresi nella frazione di mese interessata, escluse le domeniche.
La retribuzione individuata secondo i criteri illustrati può subire variazioni nel caso di:
In questi due casi – illustra l’INPS – deve essere applicata la retribuzione convenzionale corrispondente al mutamento intervenuto con la stessa decorrenza della nuova qualifica o della variazione del trattamento economico individuale.
Un caso ulteriore è quello in cui maturino nel corso dell’anno compensi variabili, dovuti, ad esempio, a lavoro straordinario e premi. Occorrerà, non essendo tali somme considerate ai fini dell’individuazione della fascia di retribuzione applicabile, rideterminarne l’importo, comprensivo delle predette voci retributive, e ridividere il valore così ottenuto per dodici mensilità.
Se per effetto di tale ricalcolo si dovesse determinare un valore retributivo mensile che comporta una modifica della fascia da prendere a riferimento nell’anno per il calcolo della contribuzione rispetto a quella adottata, sarà necessario procedere ad un’operazione di conguaglio sui periodi pregressi, a partire dal mese di gennaio dell’anno in corso.
Infine, l’INPS conclude con l’istituto della regolarizzazione per i datori di lavoro che, per il mese di gennaio 2022, hanno operato in difformità rispetto alle istruzioni della circolare emanata. Per procedere alla regolarizzazione, i datori di lavoro coinvolti hanno tempo fino al giorno 16 del terzo mese successivo alla pubblicazione della circolare in commento, ovverosia fino al 16 aprile 2022.
Con la risposta ad interpello n. 85/2022, l’Agenzia delle Entrate ha confermato che il dipendente – assunto con contratto di diritto locale presso la consociata estera a cui era stato inizialmente distaccato e rientrato in Italia per essere assunto dall’azienda che originariamente l’aveva distaccato – può beneficiare del regime agevolato impatriati.
L’istante, cittadino italiano residente all’estero, chiedeva all’Agenzia delle Entrate se avrebbe potuto beneficiare del regime fiscale speciale per lavoratori impatriati di cui all’art. 16 del D. Lgs. 147/2015 al rientro in Italia, a seguito di assunzione a tempo indeterminato da parte di una società italiana presso cui era in forza prima dell’espatrio.
In particolare, l’istante dichiarava che:
L’Agenzia delle Entrate, riprendendo quanto chiarito con la circolare n. 33/E del 28 dicembre 2020, osserva che il beneficio “lavoratori impatriati” non spetta ai contribuenti che rientrano in Italia a seguito di distacco all’estero in presenza del medesimo contratto e presso il medesimo datore di lavoro. Diversamente, precisa l’Ente, “nell’ipotesi in cui l’attività lavorativa svolta dall’impatriato costituisca una nuova attività lavorativa, in virtù della sottoscrizione di un nuovo contratto di lavoro, diverso dal contratto in esser in Italia prima del distacco – quindi l’impatriato assuma un ruolo aziendale differente rispetto a quello originario – lo stesso (ndr il lavoratore) potrà accedere al beneficio a decorrere dal periodo di imposta in cui ha trasferito la residenza fiscale in Italia”.
Al riguardo, l’autorità fiscale precisa che l’agevolazione “non è applicabile nelle ipotesi in cui il soggetto, pur in presenza di un nuovo contratto per l’assunzione di un nuovo ruolo aziendale al momento dell’impatrio, rientri in una situazione di continuità con la precedente posizione lavorativa svolta nel territorio dello Stato prima dell’espatrio”.
L’Agenzia chiarisce, infatti, che esistono dei precisi indici che dimostrano la continuità sostanziale del nuovo rapporto di lavoro rispetto a quello espletato prima del distacco, ovverosia:
In considerazione di tutto quanto sopra, l’Agenzia delle Entrate ritiene che l’Istante possa beneficiare del regime fiscale agevolato in argomento. Ciò in quanto il rapporto di lavoro proposto dalla Società ALFA risulta essere un nuovo rapporto di lavoro, non in continuità con il precedente non sussistendo alcun indicatore sopra citato. Non da ultimo, l’Agenzia precisa che l’autonomia dei rapporti contrattuali all’interno di un gruppo societario non è ostativa alla fruizione del beneficio fiscale.
La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 37905 del 2 dicembre 2021, si è espressa in merito al regime sanzionatorio previsto nel caso della mancata apposizione scritta del termine al contratto di lavoro a tempo determinato.
In particolare, i fatti di causa hanno visto un lavoratore depositare un ricorso presso il Tribunale di Pescara, convenendo in giudizio il proprio ex datore di lavoro. Tale ricorso mirava ad ottenere l’accertamento della natura a tempo indeterminato del rapporto di lavoro svoltosi tra le parti dal 28 febbraio 2013 al 30 marzo 2013, l’inefficacia del licenziamento orale intimatogli dal datore di lavoro medesimo nell’aprile 2013, la condanna di quest’ultimo al pagamento dell’indennità sostitutiva di reintegra pari a 15 mensilità dall’ultima retribuzione, oltre al risarcimento del danno parametrato alla mensilità di retribuzione globale di fatto dalla costituzione in mora fino all’introduzione del giudizio.
Il tribunale adito, con ordinanza del 17 luglio 2017, accoglieva soltanto parzialmente il ricorso: in particolare, veniva accertata la natura a tempo indeterminato del rapporto di lavoro svoltosi, così come l’inefficacia del licenziamento orale. Il datore di lavoro, pertanto, veniva condannato a corrispondere al lavoratore ricorrente l’indennità sostitutiva di reintegra pari a 15 mensilità di retribuzione, oltre al risarcimento del danno quantificato in sei mensilità della retribuzione globale di fatto.
La Corte territoriale, in seguito, accoglieva in parte il reclamo del datore di lavoro avverso la sentenza di primo grado e, in parziale riforma della sentenza impugnata, previo accertamento della esistenza tra le parti di un rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato ab origine, lo condannava alla riammissione in servizio del lavoratore ed al risarcimento del danno nella misura di 2,5 mensilità dall’ultima retribuzione.
Il contenzioso sfociava in Cassazione, cui entrambe le parti si appellavano per vedere tutelati i propri diritti. In particolare, il datore di lavoro denunciava la violazione e/o falsa applicazione dell’art. 1, co. 2, del D.Lgs n. 368/2001 (il quale prevede la nullità del rapporto di lavoro a termine in mancanza di atto scritto) e dell’art. 32, co. 5, della L. n. 183/10 (il quale normava i criteri di determinazione del risarcimento dovuto al lavoratore nei casi di conversione del contratto a tempo determinato), per avere la Corte territoriale erroneamente ritenuto che il contratto a termine privo di forma scritta fosse da sanzionare con la sola indennità di cui al detto art. 32 co. 5.
La Suprema Corte ha ritenuto fondato tale motivo di ricorso, poiché “non può ritenersi esistente (prima ancora che valido) un contratto a termine stipulato non in forma scritta, ex art. 1, co.2, D.Lgs n. 368/01 (nella specie il dedotto contratto di assunzione non venne sottoscritto da alcuna delle parti)”. A dire dei giudici, di ciò si avvede anche la sentenza impugnata, la quale ha effettivamente accertato la sussistenza ab origine di un contratto di lavoro a tempo indeterminato, “la cui cessazione non è sanzionata semplicemente ed affatto dall’art. 32, co. 5 L. n. 183/10 (che presuppone la conversione di un rapporto di lavoro a temine, pur illegittimo)”.
Altresì, la Cassazione osserva come la relativa indennità sia soggetta ad interessi e rivalutazione monetaria dalla data della sentenza di conversione del rapporto – la quale, nel caso di specie, non è mai intervenuta.
Pertanto, a dire della Suprema Corte “la sentenza impugnata è affetta da un insanabile vizio di motivazione (per assoluta contraddittorietà)”: questa ha infatti affermato, per un verso, che il rapporto di lavoro dovesse considerarsi come contratto di lavoro a tempo indeterminato sin dall’inizio, salvo sanzionare, per l’altro verso, il recesso del datore di lavoro col regime indennitario di cui all’art. 32, co. 5 citato in precedenza, previsto per il caso di conversione a tempo indeterminato di un contratto di lavoro geneticamente a termine ed illegittimo. La sentenza impugnata viene dunque cassata, sussistendo ab origine un contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato, con rinvio alla Corte d’appello di competente in diversa composizione.