La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 21793 del 29 luglio 2021, ha affermato che l’attività giornalistica resa in forma di collaborazione ma in maniera continuativa e ad alcune determinate condizioni implica la sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato.
In particolare, i fatti di causa hanno visto una lavoratrice autonoma agire giudizialmente al fine di ottenere l’accertamento della sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato presso un gruppo editoriale. La lavoratrice, inoltre, richiedeva la condanna del datore di lavoro al pagamento delle differenze retributive dovute ai sensi del CCNL a seguito della conversione.
In un primo momento, la Corte di appello di Trieste, in parziale accoglimento del ricorso presentato dalla lavoratrice ed in riforma della sentenza del tribunale competente, accertava la sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato nel periodo dal gennaio 2010 al marzo 2013. La domanda di condanna al pagamento delle differenze retributive veniva, tuttavia, dichiarata nulla.
I giudici di merito avevano infatti accertato che nel periodo in contestazione la lavoratrice aveva seguito con continuità la cronaca locale, avendo la responsabilità di uno specifico settore informativo, del quale aveva assicurato la copertura durante il corso del rapporto di lavoro.
La società editrice, in opposizione al giudizio di secondo grado, ricorreva in Cassazione rivendicando l’inesistenza di un rapporto di collaborazione fisso tra le parti, poiché non risultava dimostrato che alla lavoratrice fosse stata chiesta, nel corso del rapporto di lavoro, alcuna disponibilità tra una prestazione giornalistica e l’altra.
Inoltre, il datore di lavoro riteneva che nel rapporto intercorso tra le parti non fossero fattualmente ravvisabili i tipici elementi rilevatori della subordinazione, sia in generale che con specifico riguardo all’attività giornalistica. La lavoratrice, infatti, lavorava in maniera discontinua e con un impegno circoscritto nel tempo; non aveva mai, inoltre, dovuto garantire la propria presenza tra una prestazione di lavoro e l’altra, né era tenuta ad assicurare la propria reperibilità; non doveva, infine, chiedere ferie. A dire del datore di lavoro, in definitiva, la lavoratrice non poteva dirsi assoggettata ad alcun potere direttivo, organizzativo e disciplinare.
I giudici della Corte di Cassazione, nell’esaminare il ricorso presentato dall’editore, hanno osservato che “nell’ambito del lavoro giornalistico per la figura del collaboratore fisso rileva la continuità dell’apporto, limitato, di regola, ad offrire servizi inerenti ad un settore informativo specifico di competenza”. Attingendo da consolidata giurisprudenza, la Suprema Corte ha ribadito come per “continuità dell’apporto” si intenda lo svolgimento di un’attività non occasionale, “rivolta ad assicurare le esigenze formative e informative di uno specifico settore”, a cui si affiancano la “responsabilità di un servizio, che implica la sistematica redazione di articoli su specifici argomenti o rubriche” e il “vincolo di dipendenza, per effetto del quale l’impegno del collaboratore di porre la propria opera a disposizione del datore di lavoro permane anche negli intervalli fra una prestazione e l’altra”.
In sostanza, la Cassazione indica che la continuità di prestazione risulta fondata quando il collaboratore fisso, pur non garantendo quotidianamente la propria opera, assicuri, conformemente ad un mandato, “una prestazione non occasionale, rivolta a soddisfare le esigenze formative o informative riguardanti uno specifico settore di sua competenza”.
Altresì, sussiste un vincolo di dipendenza nei casi in cui “l’impegno del collaboratore fisso di porre a disposizione la propria opera non venga meno tra una prestazione e l’altra in relazione agli obblighi degli orari, legati alla specifica prestazione e alle esigenze di produzione, e di circostanza derivanti dal mandato conferitogli”.
Si concretizza, infine, responsabilità di un servizio qualora al collaboratore fisso sia affidato l’impegno di redigere “normalmente e con carattere di continuità articoli su specifici argomenti o compilare rubriche”.
Alla luce delle considerazioni effettuate, la Cassazione acclara come nel secondo grado di giudizio sia stato accertato che la prestazione della lavoratrice era stata resa “continuativamente ed in maniera tutt’altro che occasionale”. Poteva infatti variare il numero degli articoli redatti, ma la prestazione era pressoché quotidiana, con eccezione della sola domenica.
Inoltre, è emerso come la lavoratrice avesse effettivamente la responsabilità di un settore, in relazione al quale lei stessa proponeva i temi da trattare.
È stato altresì riscontrato che la lavoratrice era inserita nell’organizzazione aziendale ed assoggettata alle direttive dei capi servizio di cui doveva rispettare i tagli e l’enfasi sulle notizie suggeriti. In definitiva, è stato accertato che le modalità con le quali si svolgeva la prestazione rivelavano la disponibilità della lavoratrice anche negli intervalli di tempo non lavorati.
Pertanto, la Corte di Cassazione ha respinto il ricorso del datore di lavoro, condannandolo al pagamento delle relative spese.