La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 31182 del 2 novembre 2021, si è espressa in merito alla risarcibilità del danno costituito dalla deprivazione delle mansioni assegnate al dipendente, in violazione dell’art. 2013 c.c..
In particolare, i fatti di causa hanno visto il Tribunale di Roma accogliere parzialmente le domande proposte da un lavoratore, il quale chiedeva la condanna del proprio datore di lavoro al risarcimento del danno alla professionalità risentito per effetto della totale deprivazione delle mansioni assegnate, tale da determinare “un grave pregiudizio alla libera esplicazione della personalità in ambito lavorativo”, arrecando al lavoratore “una notevole riduzione delle chance di crescita professionale”.
La pronuncia del Tribunale veniva riformata dalla Corte distrettuale, che rigettava integralmente la domanda del lavoratore. Quest’ultimo ricorreva in Cassazione per la tutela del proprio diritto al risarcimento del danno.
La Corte di Cassazione, nelle sue rilevazioni, stigmatizza gli approdi ai cui è giunta la Corte di merito: in particolare, a dire dei giudici di legittimità, nel secondo grado di giudizio si sarebbe omesso l’esame di fatti decisivi, “tralasciando di considerare gli esiti del pregresso contenzioso” – inerente al periodo lavorativo svolto alle dipendenze del proprio datore di lavoro anteriormente al distacco disposto in seguito ed oggetto del giudizio in esame – “alla stregua dei quali era emerso, con statuizione coperta dal giudicato, che il ricorrente era stato non solo oggetto di demansionamento, ma totalmente privato della attribuzione di qualsivoglia attività di lavoro”. Inoltre, si sarebbe tralasciato di considerare che “il comportamento si inseriva in una lunga e manifesta gestione illecita del rapporto di lavoro la cui prosecuzione costituiva oggetto di accertamento nel presente giudizio”, rimarcando chiaramente “la sostanziale situazione di inerzia lavorativa nella quale era stato collocato il ricorrente”.
Al riguardo, la Cassazione rammenta che secondo l’art. 2103 c.c., comma 1 – nella versione di testo anteriore alle modifiche di cui al D.Lgs. 15 giugno 2015, n. 81 – “il prestatore di lavoro deve essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto […] ovvero a mansioni equivalenti alle ultime effettivamente svolte”. Tale norma è violata, avuto riguardo alla libertà ed alla dignità del lavoratore nei luoghi in cui presta la sua attività ed al sistema di tutela del suo bagaglio professionale, quando il dipendente venga assegnato a mansioni inferiori.
Viene osservato dai giudici che la presente costituisce una “protezione tradizionalmente intesa come di contenuto inderogabile, rispetto alla quale l’art. 2103 c.c., comma 2, sancisce la nullità di ogni patto contrario. L’assegnazione a mansioni inferiori rappresenta poi, fatto potenzialmente idoneo a produrre una pluralità di conseguenze dannose, sia di natura patrimoniale che di natura non patrimoniale”.
Sul punto, la Suprema Corte considera come l’inadempimento datoriale possa comportare “un danno da perdita della professionalità di contenuto patrimoniale che può consistere sia nell’impoverimento della capacità professionale del lavoratore e nella mancata acquisizione di un maggior saper fare, sia nel pregiudizio subito per la perdita di chance, ossia di ulteriori possibilità di guadagno o di ulteriori potenzialità occupazionali”.
Invero, la violazione dell’art. 2103 c.c. può pregiudicare “quel complesso di capacità e di attitudini definibile con il termine professionalità, che è di certo bene economicamente valutabile, posto che esso rappresenta uno dei principali parametri per la determinazione del valore di un dipendente sul mercato del lavoro”. La modifica in peius delle mansioni, nell’ottica dei giudici, è inoltre potenzialmente idonea a determinare un pregiudizio a beni di natura immateriale, anche ulteriori rispetto alla mera salute: nella disciplina del rapporto di lavoro, infatti, numerose disposizioni assicurano una tutela rafforzata del lavoratore, con il riconoscimento di diritti oggetto di tutela costituzionale, “con la configurabilità di un danno non patrimoniale risarcibile ogni qual volta vengano violati, superando il confine dei sacrifici tollerabili, diritti della persona del lavoratore oggetto di peculiare tutela al più alto livello delle fonti”.
Nella pronuncia della Cassazione viene dunque affermato che la negazione o l’impedimento allo svolgimento delle mansioni, al pari del demansionamento professionale, comportano la lesione del diritto fondamentale alla libera esplicazione della personalità del lavoratore anche nel luogo di lavoro, determinando un pregiudizio che incide sulla vita professionale e di relazione dell’interessato. Tale lesione assume una “indubbia dimensione patrimoniale”, la quale rende il pregiudizio medesimo “suscettibile di risarcimento e di valutazione anche in via equitativa”.
Se, infatti, l’art. 2103 c.c., nella formulazione pro tempore vigente, riconosce esplicitamente il diritto del lavoratore a svolgere le mansioni per le quali è stato assunto ovvero equivalenti alle ultime effettivamente svolte, deve ritenersi sussistente il conseguente diritto del lavoratore a “non essere lasciato in condizioni di forzata inattività e senza assegnazione di compiti, ancorché in mancanza di conseguenze sulla retribuzione; in capo al lavoratore sussiste, dunque, non solo il dovere ma anche il diritto all’esecuzione della propria prestazione lavorativa – cui il datore di lavoro ha il correlato obbligo di adibirlo – costituendo il lavoro non solo un strumento di guadagno, ma anche una modalità di esplicazione del valore professionale e della dignità di ciascun cittadino”.
Nel cassare, dunque, la pronuncia della Corte di Appello, i giudici della Cassazione evidenziano che, pur in assenza di un intento persecutorio, il comportamento del datore di lavoro che lasci in condizione di inattività il dipendente costituisce una violazione dell’art. 2103 c.c., oltre a ledere il diritto al lavoro, inteso quale “mezzo di estrinsecazione della personalità di ciascun cittadino, nonché della professionalità del dipendente”.