La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 25901 del 23 settembre 2021, ha affrontato il caso di un licenziamento inflitto ad una lavoratrice del pubblico impiego a seguito della riapertura di un procedimento disciplinare.
In particolare, i fatti di causa hanno visto una lavoratrice, dipendente comunale, essere licenziata in via disciplinare per avere “reiteratamente calunniato e leso l’onore e la dignità del Comandante della Polizia Municipale e di altri suoi superiori, eventi cagionati attraverso le infondate accuse contenute in una denuncia-querela per violenza sessuale proposte nei confronti del Comandante e di un superiore e per aggressione e minacce nei confronti di altro superiore, poi archiviata dal G.I.P. del locale Tribunale”.
Date tali circostanze, nei confronti della lavoratrice veniva applicata la sanzione del licenziamento disciplinare, conformemente all’art. 3, comma 7, lett. F) del CCNL Comparto Regioni ed autonomie locali, prevista nei casi di “recidiva nel biennio […] di atti e comportamenti aggressivi, ostili e denigratori e di forme di violenza morale o di persecuzione psicologica nei confronti di un collega al fine di procurargli un danno in ambito lavorativo o addirittura di escluderlo dal contesto lavorativo”.
Detta sanzione, impugnata in via giudiziale, veniva dapprima annullata dal Tribunale di Teramo in quanto, per gli stessi fatti, era stato già irrogato un precedente licenziamento che era ancora sub iudice, con esiti alterni. La competente Corte d’Appello confermava l’annullamento, non ritenendo che al caso di specie potesse applicarsi quanto previsto dall’art. 55-ter, comma 3, D.Lgs. 165/2001.
Tale previsione normativa dispone, nel dettaglio, che “se il procedimento disciplinare si conclude con l’archiviazione ed il processo penale con una sentenza irrevocabile di condanna, l’ufficio competente per i procedimenti disciplinari riapre il procedimento disciplinare per adeguare le determinazioni conclusive all’esito del giudizio penale. Il procedimento disciplinare è riaperto, altresì, se dalla sentenza irrevocabile di condanna risulta che il fatto addebitabile al dipendente in sede disciplinare comporta la sanzione del licenziamento, mentre ne è stata applicata una diversa”.
Il Comune, avendo nel frattempo avuto contezza del fatto che, in esisto alle infondate denunce della lavoratrice, aveva avuto corso un processo penale per calunnia, conclusosi con sentenza di condanna a carico della medesima, irrogava un nuovo licenziamento in conformità all’art. 3, comma 8, lett. E) del CCNL, riguardante il caso della “condanna in giudicato per un delitto che, pur non attenendo in via diretta al rapporto di lavoro, non ne consenta neanche provvisoriamente la prosecuzione per la sua specifica gravità”.
Anche il secondo licenziamento, una volta impugnato, veniva annullato dal Tribunale di Teramo, con sentenza confermata in Appello. Nel frattempo, l’originaria pronuncia di annullamento del primo licenziamento veniva dapprima riformata dalla Corte d’Appello di L’Aquila, la cui pronuncia veniva cassata dalla Suprema Corte, confermando il rigetto dell’impugnativa del primo licenziamento.
Tanto premesso, la Suprema Corte osserva che è necessario escludere che i due procedimenti disciplinari abbiano riguardo a illeciti differenti. Difatti, “le due norme sanzionatorie hanno elementi specializzanti: la prima applica la sanzione del licenziamento nel caso in cui la condotta costituisca reiterazione di altri analoghi atti offensivi o denigratori; la seconda ipotesi disciplinare ha invece come specializzante l’elemento della condanna penale in giudicato. Ciò non toglie tuttavia che il nucleo della condotta […] sia il medesimo e consista nel comportamento denigratorio verso i superiori”.
La condotta perseguita – afferma dunque la Corte di Cassazione – è sempre la stessa e, pertanto, il secondo licenziamento non può dirsi riguardare un diverso fatto.
Si pone, dunque, il tema della possibilità o meno di riaprire il procedimento disciplinare qualora, rispetto ad un fatto già perseguito e potenzialmente tale da costituire reato, sopravvenga la condanna in sede penale non considerata nel precedente procedimento sanzionatorio, condotto a prescindere dal procedimento penale pendente.
I giudici di legittimità osservano che il procedimento disciplinare “mantiene come tale la sua autonomia e potrà risentire degli effetti del giudicato penale se l’azione disciplinare sia ancora non definita oppure solo se ed in quanto […] la definitività dell’accertamento penale sia posta […] a fondamento degli obblighi di riapertura”.
Viene altresì evidenziato che, in materia di rapporto di lavoro, costituisce principio del tutto consolidato quello per cui il potere disciplinare non possa essere reiterato, per il medesimo fatto, una volta già esercitato mediante applicazione di una sanzione. Ciò avviene anche se la prima sanzione sia minore di quella poi risultata applicabile sulla base di ulteriori circostanze sopravvenute.
Nonostante l’autonomizzazione del procedimento disciplinare rispetto a quello penale, il legislatore ha previsto alcuni casi in cui l’eventuale conclusione del processo penale in senso difforme rispetto alle determinazioni assunte in sede disciplinare è destinata a determinare effetti anche su quest’ultimo piano, sebbene formalmente già definito.
Ciò accade, a favore dell’incolpato, qualora il processo penale si chiuda con sentenza irrevocabile di assoluzione che riconosce che il fatto addebitato al dipendente non sussiste o non costituisce illecito penale o che il dipendente medesimo non lo ha commesso: in tali ipotesi, su istanza dell’interessato, il procedimento disciplinare deve essere riaperto al fine di adeguarne gli esiti alla sopravvenienza giudiziale.
Pertanto, non può ritenersi ammessa l’attivazione di un secondo procedimento disciplinare, per lo stesso fatto, se non nei casi espressamente ammessi dall’art. 55-ter del D.Lgs. 165/2001.
Analogamente, la previsione della riapertura del procedimento disciplinare chiuso con sanzione conservativa, nel caso di fatti tali da comportare il licenziamento accertati in sede penale, è ipotesi espressamente regolata proprio per la sua divergenza, a tutela dell’interesse pubblico, rispetto al principio generale di “consumazione” del potere disciplinare.
Alla luce di tutto quanto osservato, i giudici di legittimità determinano che non solo il Comune in questione “non avrebbe potuto aprire un nuovo procedimento disciplinare, per i medesimi fatti, per l’essere stato il licenziamento (provvisoriamente) annullato dalla sentenza di primo grado, ma neppure ciò avrebbe potuto fare se anche quell’annullamento fosse divenuto definitivo, perché neanche tale ipotesi è prevista come caso di possibile riedizione del potere disciplinare per il medesimo fatto, prevalendo a quel punto, tra le parti, il giudicato formatosi sul rapporto di lavoro in essere e sull’inidoneità ad incidere su di esso dell’azione disciplinare”.